L’America si è davvero rialzata? L’interrogativo che appare sulla prima pagina di Le Monde sintetizza lo spirito con cui si discute sui giornali francesi il decennale dell’11 settembre; in uno dei paesi occidentali che meno ha approvato e condiviso la reazione politica e militare degli Stati Uniti agli attentati, non stupisce che l’analisi degli anni appena trascorsi si focalizzi sugli errori che hanno caratterizzato quella strategia. Le Monde si chiede se la Storia, in futuro, segnerà con questa data-simbolo l’inizio del declino americano.
Da un punto di vista politico, Barack Obama non riesce ancora ad essere il “presidente del 12 settembre”, secondo la definizione di Thomas Friedman; nonostante l’uccisione di bin Laden, non si percepisce ancora un cambiamento radicale rispetto al passato. Certo, le manifestazioni più ostentate della “guerra globale al terrore” dichiarata da George W. Bush sono state eliminate, ma Obama non è riuscito a chiudere la prigione di Guantánamo né a trovare una via d’uscita per il sempre più sanguinoso conflitto in Afghanistan.
La situazione assume toni più drammatici se la si osserva dal punto di vista economico: gli Stati Uniti sono passati in soli dieci anni da un sentimento di iper-fiducia nei propri mezzi all’attuale profonda incertezza, alimentata da livelli record di indebitamento e disoccupazione. Le Monde ironicamente descrive il materasso anti-crisi costituito in Maryland, Virginia e Washington, D.C. dalle nuove grandi agenzie pubbliche che si occupano della gestione della guerra e della sicurezza interna. Non è certo un caso se il presidente eviterà ogni protagonismo e glorificazione nelle celebrazioni dell’evento, avendo già scelto di mostrarsi alla testa nel paese in un’altra e differente condizione: quella di leader nella lotta alle conseguenze nefaste della crisi.
I corrispondenti dall’America di Le Monde riflettono poi sulle libertà scomparse a seguito degli attentati: le varie misure adottate dagli Stati Uniti (ma anche da molti altri paesi) avrebbero fatto entrare l’Occidente in un’era del sospetto, segnata da un eccessivo inasprimento del controllo poliziesco sui cittadini nei settori della comunicazione digitale, del trasporto aereo, della sicurezza urbana, e da un indebolimento delle garanzie individuali nella procedura penale. L’incapacità americana di rinunciare a un tale sacrificio di libertà è un altro segnale del declino?
Le Monde cita infine un sondaggio a cura del Pew Research Center, secondo cui crescono i dubbi degli americani sull’efficacia di certi provvedimenti. Per il 35% di essi è stata solo “fortuna” se negli ultimi dieci anni non c’è stato un altro attentato sul suolo americano e il 43% pensa che la politica estera del paese può avere avuto qualche responsabilità in ciò che è successo l’11 settembre.
Intanto, il quotidiano cattolico La Croix in un editoriale definisce “illusoria” la ricerca di una sicurezza assoluta. E ricorda che le disposizioni del Patriot Act – la legge antiterrorismo votata sei settimane dopo gli attentati – sono state tutte riconfermate in maggio: il pendolo che in guerra oscilla tra la difesa delle libertà personali e la protezione dei cittadini non è ancora tornato indietro.
Di tono differente l’analisi di Le Figaro, che sottolinea la vulnerabilità e l’incertezza in cui ancora si trovano Stati Uniti ed Europa, nonostante le misure antiterrorismo messe in campo su entrambe le sponde dell’Atlantico e le tante operazioni belliche condotte finora. Il quotidiano conservatore, che sostenne la scelta dell’ex presidente francese Jacques Chirac di non partecipare all’invasione dell’Iraq, attraverso una serie di editoriali e di contributi – come quello del politologo Joseph S. Nye – evidenzia come gli avvenimenti successivi all’11 settembre hanno portato alla luce le fondamenta d’argilla della geopolitica americana degli ultimi dieci anni.
I suoi due pilastri, cioè il mito della superpotenza capace di risolvere da sola i propri conti in sospeso e l’idea dello scontro di civiltà, hanno minato la capacità degli Stati Uniti di portare il mondo dalla parte delle proprie ragioni. Inoltre, dedicare tutte le energie a “dispendiose e inutili guerre” non ha consentito al paese di cogliere i cambiamenti globali in atto, come lo scivolamento del centro di gravità dell’economia verso l’Asia, e lo ha costretto ad affrontare l’intensità della crisi economica da una posizione di debolezza.
Il riconoscimento dell’inefficacia dell’unilateralismo da parte di Washington contribuisce, dieci anni dopo, a rendere più facile la ricucitura delle piaghe aperte dall’11 settembre. Sono di nuovo possibili operazioni di intervento congiunto all’interno della NATO, come quella franco-inglese che ha portato alla liberazione della Libia, ex vivaio jihadista. La virata di Obama verso un “multilateralismo rafforzato” viene apprezzata anche dal quotidiano economico Les Echos, che spiega come l’indebitamento dovuto alle tante guerre impedisce ora agli Stati Uniti di tornare a crescere. La fine dello spirito “crociato” che animava la politica estera americana permette inoltre ai cittadini dei paesi islamici di abbandonare il richiamo integralista incarnato da bin Laden: l’ondata di cambiamenti di regime in senso democratico rivela il grande desiderio di modernità e di normalità da parte del mondo arabo.
Ed è infatti la primavera araba il punto di vista che il quotidiano della sinistra radicale Libération decide di adottare per raccontare, grazie a interviste e testimonianze dall’Egitto e dalla Tunisia, di un decennale dell’11 settembre eclissato dagli avvenimenti che negli ultimi mesi hanno sconvolto la sponda meridionale del Mediterraneo, e vissuto con indifferenza dai giovani nordafricani che dopo aver riempito le piazze delle loro città guardano con fiducia e impegno soprattutto al proprio avvenire.
In un tale cambiamento di scenario anche Libération riconosce il contributo fondamentale di Barack Obama, che a partire dal discorso pronunciato al Cairo nel giugno 2009 ha reso possibile una rifondazione delle relazioni tra Occidente e mondo arabo-musulmano: lo scontro frontale è stato accantonato in favore di una convergenza sui valori fondamentali, capace di avviare una virtuosa transizione alla democrazia, fallita quando tentata con l’unilateralismo di George W. Bush.
Tuttavia, Libération fa un quadro a tinte piuttosto fosche della situazione americana, e giudica il vigore degl Stati Uniti “avvizzito”, mentre il paese non è ancora in grado di comprendere la lezione dell’11 settembre. L’unità raggiunta dopo gli attentati è andata persa, sostituita da una lacerante divisione prima sulla guerra all’Iraq e oggi sulle ricette per uscire dalla crisi; gli errori che si sono succeduti sotto la presidenza Bush non sono stati ancora corretti e anzi se ne pagano le conseguenze in termini di indebitamento in economia, minore capacità di manovra in politica estera e inasprimento dei controlli di sicurezza sul piano interno. Il nuovo World Trade Center – conclude il giornale fondato da Jean Paul Sartre – da erigere nello stesso luogo in cui sorgeva il primo, rischia perciò di trasformarsi nella riproposizione di un’icona di potenza che ha già dimostrato il suo fallimento.
“Coloro che ci hanno attaccato l’11 settembre volevano isolare il resto del mondo dagli Stati Uniti – dice Barack Obama nella sua lettera a le Figaro – e hanno fallito”. Ma l’impressione è che, secondo la stampa francese, sarà ancora lunga la strada per riaffermare “lo spirito di collaborazione e di mutuo rispetto che ci serve a realizzare un mondo in cui ognuno vivrà nella dignità, nella libertà e nella pace”, che consentirebbe davvero a Obama di essere il presidente del 12 settembre.