Per garantirsi un vicino amico, l’Egitto è disposto quasi a tutto. Anzi, due anni fa non escludeva neanche di iniziare una vera e propria guerra. Anche se la crisi interna l’ha costretto a desistere, il governo del Cairo non ha distolto lo sguardo dal futuro della Libia, il dossier che sta più a cuore alla diplomazia egiziana. Alleato del generale Khalifa Haftar, con il quale condivide l’ostilità nei confronti degli islamisti, da quando è salito al potere il Presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi si è adoperato per mettere la Cirenaica nelle mani di un governo a lui amico.
L’obiettivo primario, a cui si è aggiunto quello di combattere l’autoproclamatosi “Stato Islamico”, sarebbe la creazione di una zona cuscinetto, una giusta distanza da eventuali pericoli – lo stesso “Stato Islamico”, o altri gruppi politico-militari ostili. Per farlo, il Cairo non si è fatto scrupoli a violare l’embargo al commercio di armi verso la Libia, imposto dall’ONU, facendo arrivare materiale militare proprio ad Haftar, al quale ha garantito sostegno anche con tanto di bombardamenti aerei contro i comuni nemici jihadisti.
Se dal confine orientale ci si sposta su quello occidentale – questa volta restando nel territorio egiziano – si trova nel Sinai l’altro fronte caldo sul quale Il Cairo concentra i suoi sforzi. Da anni luogo ideale per le attività di trafficanti, cellule jihadiste e beduini, dal 2013 il Sinai – strategico non solo perché al confine tra Israele ed Egitto, ma anche per il controllo del Canale di Suez – è tornato a essere la base da dove i terroristi, anche coloro che hanno giurato fedeltà al Califfo, assestano nuovi colpi contro le istituzioni centrali, in primis gli edifici militari e ministeriali.
È anche per questo che, dopo aver imposto lo stato di emergenza nella Penisola, Al-Sisi ha iniziato un’offensiva contro gli insorti che, al costo di tante vite umane, sta ottenendo un certo successo. Pochi sono coloro che possono verificare di persona l’esito della campagna, ma molti sono gli analisti che danno ormai per distrutto il fronte logistico dello “Stato Islamico” nel Sinai. I più soddisfatti sono gli israeliani, compiaciuti dal lavoro compiuto dagli egiziani. A confermare la progressiva sintonia tra Israele ed Egitto è stata anche la visita, a luglio, del ministro degli Esteri egiziano al premier Benjamin Netanyahu.
Ma per una relazione che si rafforza, ce ne è una che si indebolisce: quella con l’Arabia Saudita. Con la morte di re Abdallah nel gennaio 2015, i rapporti tra il Cairo e Riad si sono infatti raffreddati. Anche se il nuovo re Salman e il presidente Al-Sisi sfruttano ogni photo opportunity per mostrarsi amici di lunga data, la stampella che tiene economicamente in piedi l’Egitto (tramite aiuti di decine di milioni di dollari che spaziano dal settore delle infrastrutture, del petrolio e dell’agricoltura alla cooperazione militare) sta vacillando. A mostrarlo vi sono diverse divergenze: quelle sulla Fratellanza Musulmana, sull’Iran, sui conflitti in Siria e in Yemen e sulla cosiddetta “NATO araba”, che fatica a decollare.
Allontanandosi dal Cairo, re Salman privilegia il rapporto con la Turchia, altro Paese in crisi con l’Egitto dalla deposizione di Mohammed Morsi nel luglio 2013, l’ex presidente egiziano sostenuto da Racep Tayyp Erdogan. Ciononostante, poco prima del tentato colpo di stato del 15 luglio, la Turchia ha iniziato una revisione della sua politica estera che, cominciata dalle nuove relazioni con Russia e Israele, faceva presagire una possibile riconciliazione anche con l’Egitto. Questa però non è mai arrivata, anzi: negli ultimi mesi ogni speranza sembra svanita.
In seguito allo sventato golpe turco, infatti, il governo egiziano ha bloccato una risoluzione filo-Erdogan del Consiglio di Sicurezza ONU (grazie al seggio non permanente che occupa), in cui si chiedeva “rispetto per un governo democraticamente eletto”; il Cairo ha invece proposto un linguaggio diverso che sostanzialmente mette in dubbio la legittimità democratica del governo turco. A questo sono seguite le dichiarazioni del Primo Ministro egiziano che si è detto pronto a considerare una richiesta di asilo politico da parte di Fethullah Gülen – predicatore in esilio auto-imposto negli Stati Uniti, considerato da Ankara il principale fautore del colpo di stato in Turchia. Infine, il parlamento egiziano ha approvato una mozione che addita i turchi come i responsabili del genocidio degli armeni del 1915-16.
Nella lista degli ex-amici, l’Egitto annovera ora anche l’Italia, con cui i rapporti sono giunti al minimo storico dopo il ritrovamento della salma (con evidenti segni di tortura) di Giulio Regeni in gennaio. Lontanissima sembra l’estate 2014, quando Matteo Renzi si affrettò ad atterrare al Cairo per essere il primo leader occidentale a stringere la mano all’ex generale Abdel Fattah Al-Sisi, che aveva appena indossato vesti civili dopo la conquista del potere.
Dopo l’approvazione del così detto “emendamento Regeni” – attraverso il quale il Parlamento ha fermato la fornitura all’Egitto di pezzi di ricambio per gli aerei da combattimento F16 – il Cairo ha annunciato contromisure su due temi “caldi”: immigrazione e Libia. La posizione italiana sulla Libia era già distante da quella del Cairo, e in linea con quella dell’ONU a sostegno del governo di unità nazionale di Fayez al-Serraj: non ci saranno dunque grosse conseguenze su questo dossier. Sull’immigrazione, invece, la svolta del Cairo consiste nella fine della sorveglianza delle sue coste, da dove ora i migranti vengono lasciati liberi di partire verso l’Italia: già dalla primavera la “rotta egiziana” è stata riaperta, con le connesse tragedie in mare.
Anche se le varie crisi e i rapporti bilaterali assorbono dunque molte delle energie diplomatiche egiziane, la politica estera del Cairo continua a essere attiva anche su altri fronti, in primis quello africano. Dopo quasi un anno di sospensione – a causa di quello che era stato definito, nell’estate 2013, un cambio di governo incostituzionale – nel luglio 2014 l’Unione Africana ha deciso di riammettere l’Egitto come membro a pieno titolo. Da allora Al-Sisi ha moltiplicato i suoi sforzi pan-africani. Ha tentato di riavvicinarsi non solo all’Etiopia, la cui relazione è stata messa in crisi dall’inizio, nel 2011, della costruzione della Diga sul Nilo – che prevedendo la deviazione delle acque fluviali è stata accusata di ridurne il flusso verso gli altri nove paesi attraversati dal Nilo, in primis Egitto e Sudan – ma anche ad altri Paesi del bacino del Nilo, a partire dalla Somalia.
Per farlo si sta servendo anche di strumenti di soft power. A confermarlo, l’invito rivolto al Parlamento Pan-africano di tenere la sua prossima riunione, in ottobre, a Sharm el-Sheikh (dopo gli attentati, ormai snobbata dai turisti). Ma anche il tentativo dell’emittente nazionale egiziana di ritornare a essere parte dell’Unione delle stazioni radiofoniche africane, per rivolgersi a un pubblico di ampiezza continentale. I progetti che Al-Sisi vuole comunicare agli africani sono così tanti, infatti, che al Cairo si è proposta la creazione di un ministero specifico per gli Affari Africani.