Le monarchie del Golfo e il nucleare: fra Iran e sicurezza energetica

Nel discorso sull’accordo appena raggiunto con l’Iran, il presidente statunitense Barack Obama ha inviato alcuni messaggi, anche indiretti, all’Arabia Saudita. L’accordo siglato, oltre a non essere di quelli che “si fanno con gli amici”, “non è basato sulla fiducia, ma sulla verifica”. E gli Stati Uniti proseguiranno comunque nel cammino di cooperazione per la sicurezza con le monarchie del Golfo, come delineato nel vertice di Camp David del maggio 2015. Per Obama, è fondamentale rassicurare da subito soprattutto i due alleati-chiave: Israele e Arabia Saudita. Infatti, invece che distendere le relazioni fra le due rive del Golfo, la firma dell’intesa sul dossier nucleare fra l’Iran e il gruppo dei 5+1 rischia, paradossalmente, di produrre l’effetto contrario. E innescare – oltre che una corsa agli armamenti convenzionali, già in atto da almeno un decennio – una nuova stagione di proliferazione nucleare in Medio Oriente. La prima reazione di Riyadh (e di Abu Dhabi) all’accordo di Vienna è stata cauta, ma ferma: secondo i sauditi, l’intesa fra l’Iran e i 5+1 potrebbe essere “buona cosa” se impedisse davvero a Teheran di dotarsi dell’arma nucleare, ma potrebbe rendere la regione mediorientale “più pericolosa” se consentisse agli iraniani di “seminare il caos” nel quadrante, tramite il sostegno ai proxies.

Sono numerosi i segnali che indicano che l’Arabia Saudita potrebbe accelerare il suo programma nucleare, valutando anche l’acquisto di testate nucleari da alleati asiatici (Pakistan), il che avrebbe un’ulteriore connotazione geopolitica anche ben oltre l’area mediorientale. Come recentemente affermato, tra propaganda e verità, dall’ex capo dell’intelligence dell’Arabia Saudita, Turki bin Faysal, “whatever the Iranians have, we will have too”. Il principe saudita si esprimeva così in aprile ad una conferenza organizzata dal sudcoreano Asan Institute for Policy Studies.

Per Riyadh, il nodo della questione non è tanto legato a un “Iran con la bomba” (a differenza quindi di Israele), ma ha piuttosto a che fare – dopo l’accordo di Vienna – con il pieno reinserimento dell’Iran nel sistema internazionale e con le conseguenze politiche del disgelo fra Washington e Teheran. Mentre sauditi e iraniani competono per l’influenza regionale, un Iran progressivamente libero dalle sanzioni economiche a partire dal 2016 (permangono tuttavia cinque anni di embargo sulle armi convenzionali e otto sui missili balistici) avrà a disposizione maggiori risorse finanziarie da poter, in parte, convogliare a sostegno di movimenti politici e/o milizie (Hezbollah fra Libano e Siria, milizie sciite in Iraq, Ansarullah in Yemen, forse gruppi dell’insorgenza sunnita afghana anti-“califfato”). Come sempre, il problema è dunque geopolitico, ancor prima che puramente tecnico-nucleare.

Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (entrambi firmatari del Trattato di non-proliferazione del 1968, come d’altronde lo stesso Iran), hanno avviato investimenti nel settore dell’energia nucleare, inestricabilmente dual-use(civile e militare). I vettori che stanno spingendo la riva arabica del Golfo verso il nucleare sono almeno due: innanzitutto quello geopolitico (il fattore “prestigio”) e difensivo in chiave anti-Iran, ma anche quello (meno mediatico ma assai più concreto) della sicurezza energetica. In Arabia Saudita, la domanda interna di energia (coperta da petrolio e gas) cresce del 7% annuo: aumento demografico, alte temperature (in estate, l’aria condizionata brucia il 52% del totale di energia elettrica consumata), ma anche inefficienze e sprechi. Lo sfruttamento della tecnologia nucleare può generare elettricità e incidere nel processo di desalinizzazione dell’acqua – e non va dimenticato che l’industria petrolchimica, uno degli asset della diversificazione economica saudita, necessita di ingenti risorse idriche.

Con un decreto reale del 2010, il regno saudita ha avviato un programma nucleare per fini civili, che prevede la realizzazione di 16 reattori entro il 2030, per coprire il 20% circa della domanda elettrica nazionale: tutte le attività del comparto sono state poste sotto la supervisione della King Abdullah Atomic Energy City (KACARE), situata a 25 chilometri dalla capitale. A differenza dell’Iran, che avviò il suo programma negli anni Sessanta, con lo shah Reza Pahlavi e il sostegno tecnico statunitense, l’Arabia Saudita non ha expertise nucleare nazionale, ma dipende da ingegneri e personale specializzato straniero (soprattutto pakistano). Sta iniziando solo ora a formare tecnici locali: questo è un grave limite strategico, che andrà valutato appieno nel medio e lungo periodo. Le alleanze internazionali sono dunque fondamentali: Riyadh ha siglato accordi di cooperazione nucleare con Stati Uniti, Francia, Corea del Sud (2015), Cina, Argentina. Un accordo con la Russia – dopo l’importante visita del ministro della difesa Mohammed bin Salman a Mosca – è appena stato firmato (da notare che la compagnia statale russa Rosatom ha da poco siglato anche un contratto per la costruzione del primo impianto nucleare in Giordania), e un altro con il Giappone è in via di definizione. C’è poi l’ostacolo delle materie prime: l’Arabia Saudita ha scarse riserve di uranio, di cui è invece molto ricca la vicina e alleata Amman, dove i francesi di Areva esplorano dal 2008 proprio le possibilità di estrazione dell’uranio, anche per scopi di esportazione.

Il primo reattore di Riyadh dovrebbe entrare in funzione solo nel 2022. Dato che l’accordo di Vienna fra Iran e 5+1 blocca l’atomica per dieci anni, ma sposta il weapon capability breakout di Teheran (ovvero il tempo in cui l’uranio per una bomba potrebbe essere prodotto) da tre mesi a un anno, il programma nucleare saudita potrà comunque avere, nel medio periodo, scarsissime ambizioni di deterrenza. Ecco perché molti osservatori ritengono probabile che l’Arabia Saudita decida di acquistare tecnologia nucleare da paesi terzi (con primo indiziato l’alleato Pakistan, una tesi rilanciata soprattutto dalla ben informata stampa israeliana). Dal 2007, Riyadh sta rinnovando il suo arsenale missilistico acquisendo, per esempio, i missili a lungo raggio CSS-5 (denominazione NATO) dalla Cina, che è a sua volta il primo importatore di petrolio saudita: secondo l’International Institute for Strategic Studies, la CIA sarebbe intervenuta nell’operazione, per assicurarsi che i missili non possano montare testate nucleari. Nonostante i militari pakistani dipendano storicamente dagli aiuti finanziari sauditi, la strada della cooperazione nucleare non va però considerata in discesa: il parlamento di Islamabad ha votato contro la richiesta saudita di partecipazione all’intervento aereo della coalizione in Yemen, contro le milizie sciite. Inoltre, il Pakistan non ha probabilmente interesse a creare ulteriori frizioni con il vicino iraniano (con cui condivide un confine indebolito da traffico illecito e terrorismo), specie adesso che il mercato della Repubblica Islamica si può ufficialmente riaprire agli investimenti.

Il programma nucleare degli Emirati Arabi Uniti, finanziato soprattutto da Abu Dhabi e partito nel 2008, è invece in fase più avanzata. La federazione si è però formalmente impegnata, nel 2009, a non procedere all’arricchimento dell’uranio e al reprocessing del plutonio, acquisendo così la certificazione “gold standard” da parte degli Stati Uniti per la non-proliferazione (e un accordo di technology transfer con Washington). Gli emiratini hanno realizzato nel 2012 il primo dei quattro reattori previsti: l’impianto di Barakah 1 inizierà a produrre già nel 2017, mentre gli altri tre reattori sono in costruzione, con l’obiettivo di vendere il surplus energetico ai vicini. In stretta cooperazione tecnica con l’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica), la federazione intende sviluppare know-how locale e un distretto industriale indigeno per la costruzione di impianti e infrastrutture. Tuttavia, le alleanze di politica energetica sono anche qui indispensabili: oltre agli Stati Uniti, la Corea del Sud è il partner fondamentale, e l’ex presidente dell’AIEA, Hans Blix, presiede il board straniero di consulenza degli EAU.

Il congresso statunitense, a maggioranza repubblicana, ha ora sessanta giorni per approvare o respingere l’accordo di Vienna: ma Barack Obama porrà il veto su un eventuale blocco parlamentare all’intesa. Sarà interessante osservare come il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) reagirà, concretamente, a un’intesa “fra nemici”, Iran e USA, che stanno però già cooperando, sul campo, contro il sedicente califfato. Dopo le intemperanze di Doha, l’asse Riyadh-Abu Dhabi sembra tenere le redini del CCG; ma Qatar e Oman (il Sultanato è stato il discreto ma grande facilitatore iniziale della trattativa) condividono con Teheran forti interessi gasiferi. E dopo l’annuncio dell’accordo sul nucleare, sauditi ed emiratini hanno lanciato una nuova, forte offensiva aerea in Yemen, per aiutare le milizie pro-governative a espellere i ribelli huthi (sostenuti da Teheran) dalla città contesa di Aden.

Il petrolio, con il ritorno di Teheran all’export, sarà il nuovo terreno di competizione fra sauditi e iraniani.  Per gli Stati Uniti è forse arrivato il momento di offrire al CCG quell’accordo formale di sicurezza rimasto sullo sfondo del recente vertice di Camp David; ri-bilanciare i delicati equilibri del Golfo è infatti più che mai prioritario, in un contesto di acuta instabilità regionale.

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