Le molte sfide del sistema spagnolo

La foto di Pedro Sánchez e Pablo Iglesias sorridenti all’inizio dell’anno, sembra oggi, a soli 9 mesi di distanza, di un secolo fa. Avevano appena portato a termine la difficile impresa di creare il primo governo di coalizione della storia della Spagna post-franchista, e per di più il primo governo in cui siedono i socialisti con una forza politica alla loro sinistra – Unidas Podemos – in qualche modo erede della tradizione politica comunista spagnola.

L’impatto primaverile del coronavirus – che colse il governo quando aveva appena alzato il salario minimo e in pieno dibattito interno su una nuova legge sulle pari opportunità – è stato fortissimo. La Spagna fra marzo e aprile è stata uno dei paesi con più contagi e più morti del continente. Sánchez – pur mantenendo le competenze regionali in ambito sanitario – fece allora il passo di centralizzare le grandi decisioni, la più importante delle quali è stata quella di adottare uno dei lockdown più duri di tutto il mondo. Non era semplice, conoscendo il modello di governo territoriale della Spagna e le varie e variabili competenze in gestione alle diverse “comunità autonome” (regioni).

Per l’appunto, in quella fase il governo fu oggetto delle critiche continue dell’amministrazione autonoma della Catalogna e di quella della Regione di Madrid: si trattava non solo delle due regioni più popolose, con più contagi e più morti (con dei picchi davvero terribili nelle RSA) ma anche delle due politicamente più “pesanti” e ostili al governo, una perché è l’avamposto dell’opposizione di destra, e l’altra perché guidata dai partiti indipendentisti. Ciononostante, quella decisione diede buoni risultati. Praticamente azzerati contagi e morti all’inizio di giugno, si sperava nella ripresa di una certa normalità per l’estate.

Invece la gestione dell’uscita dal lockdown, messa in buona parte in mano alle regioni, da giugno in poi, sembra essere stata troppo precipitosa, e in molti casi ha dimostrato l’esistenza di carenze evidenti nell’amministrazione regionalizzata della sanità. Già da luglio, i contagi sono ricominciati a salire in Aragona e Catalogna, con epicentro soprattutto nelle imprese agricole. Nel seguito dell’estate i contagi si sono estesi alle attività sociali (riunioni familiari, locali pubblici…), un po’ in tutto il territorio fino ad arrivare alla complessa situazione di oggi, con la regione di Madrid peggiore d’Europa.

La presidente della Comunidad de Madrid, Isabel Díaz Ayuso, durante un dibattito all’Assemblea regionale. La Regione di Madrid ha indetto dal 18 settembre nuove restrizioni anti-Covid che riguardano 800.000 persone

 

La Spagna ha rotto in questi giorni la barriera del mezzo milione di casi dall’inizio della pandemia. E’ il numero assoluto più alto d’Europa, ma soprattutto ciò che preoccupa è il ritmo dei contagi, che assomiglia pericolosamente agli standard della primavera. Parte delle ragioni di questa situazione sono a tutt’oggi difficili da individuare, perchè siamo di fronte al comportamiento di un virus di cui ancora molto si ignora.

Altre cause, però, sembrano derivare dalla mancanza di risorse e strategie efficaci per seguire e isolare la propagazione del virus: dalle ispezioni nei settori produttivi più a rischio (il caso dei braccianti è evidente), fino agli “scout” (il personale,sanitario e non, che dovrebbe tracciare i contatti delle persone contagiate). Sia a Madrid che in Catalogna quest’ultimo aspetto è stato drammaticamente disatteso dalle amministrazioni regionali – con esternalizzazioni inefficaci ed in qualche caso opache –  e i risultati, purtroppo si vedono adesso. In questo momento, la situazione è peggiore nella zona della capitale, visto che in Catalogna c’è stata una certa capacità di correggere la deriva da quando – dopo mesi e mesi in cui l’incarico è rimasto inspiegabilmente vacante – a luglio è stato nominato un responsable tecnico di salute pubblica.

Per il momento, in questa seconda ondata sembrano prevalere i casi lievi o asintomatici, che pesano soprattutto sulla sanità di base – a Madrid i medici hanno programmato uno sciopero per la fine del mese.  Ma il tasso di occupazione ospedaliera per Covid è già all’8,5%, e in attesa di conoscere l’impatto della riapertura delle scuole, da un punto di vista sanitario l’autunno per la Spagna sembra davvero pieno di incognite.

L’aspetto sanitario, ovviamente non è il solo che preoccupa: le previsioni economiche sono – almeno per adesso – disastrose. Si parla di una caduta del PIL del 18,5% per il secondo trimestre dell 2020, contro il 12,8 dell’Italia e il 13,8 per la Francia. In questi mesi, il governo di coalizione ha dato risposte decise e sostanziose, che hanno evitato una vera e propria catastrofe sociale: dalla generalizzazione della cassa integrazione all’approvazione del cosidetto “Salario Minimo Vitale”, una rete di salvataggio per chi è rimasto fuori dal circuito lavorativo. L’azione del governo, da questo punto di vista e nonostante gli attacchi dell’opposizione di destra sui media (però in parlamento, alla fine, ha votato a favore di molte delle misure), è stata lodata dall’Unione Europea.

La ministra del Lavoro Yolanda Díaz e Pablo Iglesias, ispiratori di molte delle misure sociali prese negli ultimi mesi dal governo spagnolo

 

E qui arriva l’altra questione cruciale: l’esecutivo di coalizione di sinistra è riuscito a portare a casa un risultato importante dal negoziato dell’estate sul Recovery Fund. Importante e allo stesso tempo esigente: i soldi arriveranno, ma obbligheranno a una vera e propria rivoluzione del sistema produttivo spagnolo. Il modello di sviluppo degli ultimi decenni, basato sul turismo e sull’edilizia e su un ridimensionamento severo dell’economia industriale, già era in discussione prima del coronavirus, ma la pandemia ne ha messo in luce drammaticamente tutti i limiti. Benché questi sbilanciamenti su alcuni settori particolari pesino negativamente, la Spagna può comunque contare su un ottimo grado di digitalizzazione (la copertura del territorio nazionale è pressoché completa), una certa esperienza nel campo delle energie rinnovabili e la presenza di hub tecnologici importanti a livello europeo, come nel caso di Barcellona.

La scommessa sulla reindustrializzazione sostenibile, e più in generale sulla digitalizzazione dell’economia, narrativamente è quasi scontata, ma è difficile da realizzare nel breve periodo. Il problema non è tanto sugli obiettivi finali, ma su come sopravvivere nel frattempo, con una disoccupazione che è aumentata già del 7% nonostante l’ambizioso programma di ammortizzatori sociali messo in campo.

Inoltre, è mancato e manca un dibattito pubblico robusto sulla ripresa economica. In parte a causa dell’altra grande sfida che il governo ha davanti, cioè la sua stessa sopravvivenza politica. La coalizione di sinistra è nata con l’opposizione frontale della destra del PP e di Vox, che non hanno esitato a parlare direttamente di “governo illegittimo”. Ed è impigliata in un’aritmetica parlamentare che risente troppo dei delicati equilibri della stagnante politica catalana: Esquerra Republicana de Catalunya, uno dei partiti indipendentisti che governano la Catalogna, fu decisiva per garantire l’elezione di Sánchez, ma ora si trova nel bel mezzo di una “precampagna” per le elezioni regionali, di cui non si conosce la data ma per cui si combatte comunque senza esclusione di colpi – un combattimento in cui Esquerra potrebbe pagare l’appoggio al governo centrale di Madrid.

Il governo Sánchez, durante la pandemia, ha dimostrato forza e debolezza allo stesso tempo. È stato capace di attrarre in qualche caso i centralisti di Ciudadanos, reduci da una sconfitta elettorale senz’appello a dicembre, quando avevano tentato l’assalto all’elettorato di destra allineandosi con le sue posizioni più estreme, mentre ora con la nuova leadeship di Inés Arrimadas tentano di riconvertirsi in partito liberale. Ma ha subito anche sconfitte parlamentari dolorose. La maggioranza dei voti parlamentari dipende da diversi gruppi – molti dei quali con base regionale – e non sempre l’esecutivo è stato capace di raccogliere i consensi necessari.

Il numero e la pressione delle turbolenze sono cresciuti con lo scandalo di Juan Carlos, l’ex Re (ha abdicato in favore del figlio Felipe VI nel 2014) che ha lasciato il paese a sorpresa in agosto e si è stabilito in Arabia Saudita, e ora rischia di essere indagato per evasione fiscale e esportazione di capitali: all’interno del governo, Podemos, formazione apertamente repubblicana ha dovuto fare molti equilibrismi per criticare la difesa della casa reale fatta dagli alleati socialisti senza che ciò sfociasse in una crisi istituzionale.

Il Re di Spagna Felipe VI e il capo del governo Pedro Sanchez Sánchez,

 

A favore del governo, d’altro canto, gioca la debolezza della principale forza di opposizione, il Partito Popolare (PP): in queste settimane sono trapelate informazioni scottanti su settori deviati dello stato che, durante il mandato di Mariano Rajoy al governo, hanno tentato di proteggere il partito dall’esplosione di casi di corruzione conclamati. In altre parole, il PP dovrà difendersi dall’accusa – più che plausibile – di aver utilizzato il Ministero dell’Interno e la polizia a suo favore per coprire la corruzione sistemica del partito.

Tutto aperto quindi, e tutto incerto in questo settembre. Il governo può contare sulla rete di salvataggio dei finanziamenti europei e soprattutto sul buon clima creato fra l’esecutivo, i sindacati e la Confindustria. Il Ministero del Lavoro, con la leadership di Yolanda Díaz – di Unidas Podemos e di gran lunga la ministra più popolare dell’esecutivo – è riuscito a favorire una dinamica di collaborazione che si è dimostrata decisiva per la coesione del paese in questi mesi.

In qualche modo, in termini marxiani, l’Europa ed un dialogo sociale interno funzionante sono la struttura che può sostenere l’insieme del sistema spagnolo in generale e del governo Sánchez in particolare. La prova della solidità dell’impalcatura si avrà fra poco, quando verrà presentato il piano economico all’Unione Europea e il governo porterà in parlamento la finanziaria.

 

 

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