Erano solo lacrimogeni, all’inizio. Lacrimogeni e manganelli. Poi, un giorno, i proiettili. E dopo i proiettili i mortai. Dai mortai gli elicotteri. I carrarmati. “Quella linea rossa, in realtà, è un semaforo verde. Tranquillizza Assad che tranne che i gas, può usare qualsiasi altra cosa: e nessuno reagirà”, mi disse Abdallah Yassin la mia prima volta ad Aleppo, mentre grandinavano cannonate, ma ancora non erano arrivati i missili e gli aerei.
Se solo, a volte, ascoltassimo i siriani. Aveva 29 anni, Abdallah, e aveva fondato il Media Center per aiutare noi giornalisti stranieri, che scrivevamo intanto di una maggioranza sunnita oppressa dalla minoranza sciita. Accanto ad Abdallah, a spiegarci la Siria, c’era Loubna Mrie, l’altro pilastro del Media Center, ma Alawita.
“Colpisce, onestamente, che si parli di deterrenza. Perché se l’obiettivo è disincentivare un nuovo ricorso ai gas, l’attacco americano è il modo migliore per incentivare a usarli chi ha interesse a un intervento esterno – e sono tanti: tra chi si oppone al regime, ma anche tra chi all’interno del regime mira a sostituirsi ad Assad”, mi dice oggi Mohammed Noor, un altro veterano del Media Center. Che però si occupa di profughi, adesso, insieme ai molti altri attivisti passati dalle manifestazioni alle mense per sfollati: perché a febbraio, Abdallah è stato ucciso dai ribelli, che non volevano più in giro giornalisti, testimoni – mentre noi continuavamo a raccontare di una rivoluzione per la libertà.
Ma quando mai abbiamo ascoltato i siriani? Certo non in questi giorni, in cui all’improvviso tutti hanno cominciato a occuparsi di Siria – e delle decine di editoriali letti, mi è rimasto in mente solo un vecchio Mark Twain: le guerre, a noi occidentali, servono a imparare la geografia.
L’intero dibattito è stato su tutto tranne che la Siria. Sulla nostra credibilità, all’inizio, sul ruolo dell’America nel mondo, l’unipolarismo, il multipolarismo e il tramonto delle Nazioni Unite. Sull’intervento umanitario, il Kosovo, la Bosnia, l’etica e il realismo. L’etica e il cinismo. Poi il parlamento inglese ha bocciato Cameron, ed è stato il turno dell’analisi dei rapporti tra Stati Uniti e Gran Bretagna. E la Francia, cosa farà la Francia? Approfitterà del ritiro inglese per recuperare un ruolo internazionale? E l’Europa: esiste? E i paesi arabi, naturalmente, il Golfo e il prezzo del petrolio. Poi, ancora, Obama ha deciso di interpellare il Congresso: e il dibattito gli si è concentrato addosso. Debole, forte, forte a parole, il Nobel immeritato, Repubblicani e conservatori, il trauma dell’Iraq. E un falco o una colomba? O è semplicemente confuso?, Guantánamo i droni, e forse è meglio si dedichi al debito e all’economia. Fino al G20 e il mancato accordo, e l’iniziativa russa per la distruzione dell’arsenale chimico: e ora è tutta un’analisi dei rapporti tra Stati Uniti e Russia, e il ritorno di Putin, e l’Iran. Come influisce tutto questo sul nucleare iraniano? Perché poi chissà, come sempre, le conseguenze su Israele. Davvero – abbiamo parlato di tutto e tutti, in questi giorni: tranne che di possibili soluzioni. Negoziati, transizioni. E abbiamo chiesto un’opinione a tutti. Tranne che ai siriani.
E il dibattito di questi giorni, allora, dice poco di Siria, ma molto di noi. Perché in realtà, superato lo shock delle immagini dell’attacco chimico, a mente lucida si è registrato un consenso quasi unanime sull’inutilità di una rappresaglia. Per ragioni opposte: chi sosteneva i negoziati, chi sosteneva un intervento più incisivo, con truppe di terra – ma in ogni caso, l’idea di due giorni di missili è sembrata insensata a molti. La guerra, si è ripetuto, continuerà come prima. E in più, le ripercussioni sui paesi vicini saranno imprevedibili. Eppure, quando Obama ha fermato il conto alla rovescia, e deciso di interpellare il Congresso, la critica al guerriero inutile si è convertita nella critica al guerriero riluttante. Nessuno nega che intervenire in Siria sia una scelta complessa e controversa: eppure contestiamo che Obama decida di ascoltare, pensare, ponderare. Contestiamo che si lasci condizionare dall’opinione degli americani, come quell’ingenuo di Cameron – non sapeva che gli elettori sono contro la guerra perché sono egoisti? Perché non capiscono qual è il vero interesse nazionale? Non sapeva che fosse per loro, non avremmo mai avuto neppure lo sbarco in Normandia? Contestiamo la democrazia. Contestiamo quello che è in fondo il nostro obiettivo ultimo, in Siria.
Vogliamo il leader sicuro di sé, il condottiero tutto muscoli e testosterone, vogliamo l’eroe che agisce, e agisce subito – anche se l’abbiamo appena ammonito che è inutile, e anche pericoloso, agire solo per agire. Il nostro dibattito ormai è il tifo dagli spalti, il nostro parlamento, i social network. Soprattutto, insistiamo a considerarci il comandante in capo dell’umanità. Ma la costituzione statunitense non è la costituzione del mondo: quello che conta, in materia di guerra e di pace, non è il Congresso americano, ma il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ed è amaro ammetterlo, perché è urgente riformarlo: ma il Consiglio di Sicurezza oggi non è paralizzato, è bloccato dalla Russia. L’esercizio del veto non è una disfunzione: è il segnale, al contrario, del corretto funzionamento del Consiglio di Sicurezza, per come è stato strutturato nel 1945 – con la priorità di evitare, appunto, che una delle superpotenze usasse la forza a propria discrezione.
Ma soprattutto: perché abbiamo deciso che non esistono soluzioni diplomatiche per la Siria? Per un mediatore, il caso più ostico è quello di Israele e Palestina: due attori, uno subordinato all’altro, uno intrappolato dall’altro, lasciati soli al tavolo dei negoziati con il loro squilibrio di risorse e potere. Ma una pluralità di attori e interessi, invece, come in Siria, si traduce sempre in un intreccio di convergenze, oltre che divergenze – opportunità, oltre che difficoltà. Ecco quello che in Siria ti dicono tutti: l’unica ragione per sostenere Assad, oggi, è credere che l’alternativa sia peggiore. E viceversa: si è con i ribelli solo perché si è contro il regime. Nessuno può perdere, ma nessuno può vincere – è qui, ti dicono, lo spazio per il compromesso. Se solo, a volte, ascoltassimo i siriani.
Anche perché, se solo ci importasse qualcosa dei siriani, eviteremmo ora giorni di dibattito sull’iniziativa russa. E non solo perché in Iraq sono vent’anni che si continuano a neutralizzare armi chimiche. “Cosa penso di tutto questo?”, taglia corto Mohammed Noor. “Che oltre 110mila siriani sono stati uccisi con armi convenzionali. Ottanta volte le vittime dei gas”.