Nelle dinamiche interne agli Stati del Medio Oriente contemporaneo, le forze armate occupano un ruolo centrale. La conservazione o il rovesciamento dei sistemi politici dipende, in ultima istanza, dall’atteggiamento dei militari, come testimoniato dalle sollevazioni arabe del 2010-11. L’esercito è stato l’ago della bilancia fra le piazze e le resistenze dei raìs in Tunisia e in Egitto, permettendo la caduta dei regimi di Ben Ali e Mubarak (e la successiva deposizione del presidente egiziano eletto Morsi); in Libia, la scomposizione tribale e in seguito politica tra oppositori della Jamahiriyya (Bengasi) e fedeli a Gheddafi (Tripoli) si è riprodotta nell’esercito e ha cronicizzato il conflitto civile, moltiplicando le milizie nonché l’impiego di mercenari sub-sahariani da parte dei lealisti. In Siria, la coesione identitaria delle forze armate è invece l’elemento che sta consentendo al regime – insieme al sostegno materiale e politico degli alleati – di fronteggiare le opposizioni; d’altronde, l’apparato militare è storicamente il primo strumento di potere degli Assad, data la sua connotazione ideologica e familiare.
Nella Penisola arabica, le relazioni civili-militari raccontano molto del rapporto fra Stato e società. Prima che difensori dei confini nazionali, i militari sono gestori dell’ordine pubblico: la principale funzione delle forze armate è mantenere inalterati gli equilibri politico-istituzionali esistenti. Per fare ciò, le monarchie sunnite del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) hanno nei decenni intessuto con le rispettive forze armate efficaci sistemi neopatrimoniali, basati sulla compresenza, nei ranghi militari, di gruppi tribali vicini alle case regnanti e di personale straniero (soprattutto asiatici, egiziani e yemeniti di credo sunnita). In più, l’esercito regolare viene sempre controbilanciato da divisioni speciali, in primis la Guardia nazionale, a protezione diretta del regime e dei suoi palazzi: un apparato di sicurezza ibrido, in cui gruppi paramilitari si affiancano a istituzioni formali. Il nucleo della Guardia nazionale saudita, cordone ombelicale fra gli Al-Saud e le tribù sul territorio, proviene dalla regione centrale del Najd, matrice di tutte le famiglie reali della Penisola (a eccezione degli Al Bu Said dell’Oman, che provengono da Sohar); l’ossatura dell’esercito di Muscat è composta dalle storiche guardie del sultano e dai clan della valle settentrionale della Batinah (mentre sono pochi i militari del Dhofar, protagonista di un’insurrezione armata fra il 1965-75).
La formula politica su cui questo meccanismo si fonda è “fedeltà in cambio di tutele”: i privilegi che i governi concedono ai militari (stipendi, benefit, cittadinanza) sono la moneta funzionale a comprarne la lealtà e l’obbedienza. Tale sistema premia la fedeltà clientelare a discapito della professionalizzazione delle forze armate; ma al contempo, questa scelta politica ha il vantaggio di separare il “mondo dei militari” dagli umori profondi della società, proteggendo i regimi da ipotesi di golpe. Inoltre, un esercito fondato sull’obbedienza piuttosto che sulla professionalità garantisce maggiore tenuta durante la repressione delle sollevazioni interne, specie se composto da etnie e confessioni differenti rispetto a quelle dei manifestanti. Così, in Bahrein, militari asiatici e di credo sunnita si confrontano regolarmente dal 2011 con la protesta della piazza araba sciita, che invoca pari dignità sociale e politica con il resto della popolazione: tre anni fa, su richiesta degli Al-Khalifa, militari della Guardia nazionale saudita e poliziotti emiratini coadiuvarono nella repressione l’esercito bahreinita. A Manama, lo scollamento tra le forze armate e la società si perpetua nella sistematica, rapida concessione della cittadinanza agli expatriates che servono nella difesa; una pratica di allargamento della rete clientelare che mortifica il concetto di cittadinanza.
Nell’unica repubblica della Penisola arabica, lo Yemen, le forze armate sono state invece coprotagoniste della caduta dell’ultratrentennale governo di Ali Abdullah Saleh (parlare di regime change sarebbe però fuorviante). A seguito del massacro del 18 marzo 2011 – quando la Guardia repubblica sparò sulla folla disarmata della capitale, uccidendo 52 persone e ferendone oltre un centinaio – il generale Ali Muhsin al-Ahmar, comandante della Prima divisione armata del paese, decise di abbandonare il presidente Saleh, per schierarsi a protezione della multiforme piazza della protesta. Oggi, la transizione politico-istituzionale dello Yemen dipende dalla capacità delle forze armate di riacquisire, almeno in parte, il monopolio legittimo della violenza, poiché la sicurezza è come sempre precondizione per la stabilità politica e lo sviluppo economico. In tale quadro, l’applicazione del principio della parità di rappresentanza, nei ranghi militari, fra personale del nord e del sud (previsto dalla riforma in senso federale dello Stato, da poco approvata) sarà un elemento decisivo. Al momento, l’esercito yemenita è però ancora un collage di milizie tribali che afferiscono a patrons diversi, alla ricerca, specie nelle regioni meridionali di Abyan e Hadhramaut, di modalità di collaborazione con i comitati popolari, gruppi di uomini in armi (ma senza uniforme) spesso sostitutivi della polizia, organizzati proprio dalle autorità governative per contrastare Al-Qaeda nella Penisola arabica.
Le forze armate hanno in questi paesi anche un’altra funzione: esse sono uno strumento di costruzione e di consolidamento dell’identità nazionale, in quanto preziosi laboratori di integrazione etnico-confessionale negli Stati a società disomogenea. A riguardo, il Libano dopo la guerra civile degli anni Settanta e Ottanta è un caso di faticoso successo: nonostante le continue scosse regionali, l’esercito libanese sta guadagnando legittimità nazionale, grazie al servizio militare obbligatorio e all’equilibrio comunitario interno alle brigate. All’opposto, l’Iraq rischia di divenire l’esempio da non imitare, dato che il governo a monopolio sciita ha reintegrato nell’esercito solo una parte dei miliziani sunniti anti-qaedisti (sahwa), e i pochi ufficiali curdi vengono discriminati nel processo decisionale.
Nella Penisola arabica, tre stati si avviano a introdurre la coscrizione obbligatoria: Qatar, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Kuwait. Nei mesi scorsi, i primi due hanno reso pubblici progetti di legge in materia: l’idea è imporre un periodo di leva ai cittadini maschi emiratini fra i 18 e i 30 anni (da nove mesi a un massimo di due anni), e ai qatarini fra i 18 e i 35 anni (3/4 mesi). Anche il governo del Kuwait intende ripristinare il servizio militare, già introdotto nel 1978 e sospeso dal 2001, per coinvolgere i sunniti kuwaitiani: la percentuale di militari bidun, ovvero arabi apolidi, è molto alta (circa il 40% del totale nel 2001) e gli sciiti, pur presenti nelle forze armate e in polizia, non occupano posizioni apicali.
Questa operazione quasi simultanea avrebbe lo scopo, come affermato dal Consiglio nazionale federale degli EAU, di rafforzare la coesione identitaria nei singoli paesi, senza però mettere a rischio il contratto sociale su cui si regge l’equilibrio interno. Fra i sette Emirati, Dubai e Ras al-Khaimah hanno però finora bloccato il progetto in opposizione alle politiche accentratrici di Abu Dhabi in tema di sicurezza (nonostante questo Emirato abbia cercato di sedare i malumori favorendo la promozione nelle gerarchie militari di ufficiali del nord).
Intanto, per il Qatar i rapporti con i vicini si sono deteriorati al punto che Arabia Saudita, Bahrein ed EAU hanno ritirato a marzo i loro ambasciatori, condannando la politica estera pro-Fratelli musulmani di Doha che violerebbe l’accordo di sicurezza siglato. Sarà ora interessante osservare se ciò avrà ripercussioni sulla strategia del piccolo emirato degli Al-Thani. Il problema della frammentazione politico-diplomatica potrebbe insomma aggiungersi ai limiti strutturali dell’azione internazionale dei paesi del Golfo. Nonostante le grandi percentuali di PIL destinate al settore militare e all’acquisto di armi sofisticate, l’essenza delle forze armate dei paesi del CCG è ancora quella di un military-tribal complex, in cui la carriera militare dipende da vincoli di solidarietà tribale (asabiyya) e l’efficienza, specie nel combattimento terrestre, è una considerazione secondaria. In questo quadro, i governi continuano ad aver bisogno di un fornitore esterno di sicurezza, ovvero gli Stati Uniti, a maggior ragione se le divergenze politiche subregionali (frizioni tra Arabia e Qatar, Oman sempre più autonomo in politica estera) dovessero trasformarsi nella dominante politica del prossimo futuro. Ecco perché la visita del presidente Obama da re Abdullah è stata, ancor prima dei contenuti affrontati, di per sé un messaggio: la complicata relazione speciale Washington-Riyad continua a essere una reciproca necessità soprattutto in tema di difesa.