La campagna elettorale del partito di governo, centrata sull’attacco al miliardario George Soros e alla sua galassia di fondazioni e istituzioni, accusate di favorire l’immigrazione clandestina e di influenzare i processi decisionali europei in materia di sicurezza dei confini, aveva fatto breccia nell’elettorato grazie a un martellamento mediatico a tratti ossessivo. Poi, all’improvviso, la svolta – inizialmente impercettibile come i movimenti tettonici al primo stadio.
Sulla stampa di opposizione e sui social network sono comparsi i rapporti investigativi dell’OLAF, l’Ufficio europeo per la lotta antifrode, relativi all’ammodernamento degli impianti di illuminazione pubblica di molte città ungheresi. Un tema apparentemente minore, se non fosse per un dettaglio che ha sconvolto l’inerzia di una campagna elettorale incentrata sul leader europeo più discusso degli ultimi anni: la ditta vincitrice degli appalti truccati era parzialmente detenuta dal genero di Orbán, il giovane imprenditore-oligarca István Tiborcz. Il sistema di corruzione minuziosamente ricostruito dagli ufficiali dell’OLAF è divenuto di pubblico dominio nonostante gli sforzi del partito di governo e dei media pubblici di ignorare lo scandalo. Inoltre, l’immagine di Orbán, già ammaccata in certi settori dell’opinione pubblica per l’arricchimento repentino e assai sospetto di personaggi legati al “cerchio magico” della sua famiglia, ha subito un danno consistente.
Domenica 25 febbraio, a conferma di un cambiamento di umore collettivo che i sondaggi non avevano fino a quel momento registrato, un indipendente, cattolico praticante e padre di sette figli, ha sorprendentemente surclassato alle elezioni amministrative supplettive il candidato governativo a sindaco di Hódmezővásárhely, un importante centro di 50 mila abitanti dalle tradizioni politiche conservatrici. I quasi venti punti di distacco inflitti dall’opposizione unificata al partito di Orbán hanno scioccato la macchina comunicativa e l’apparato di governo, galvanizzando al tempo stesso le forze di opposizione. Un sondaggio apparso in seguito, ma realizzato poco prima delle supplettive del 25 febbraio, indica a livello nazionale un calo di quasi dieci punti per il partito di governo (comunque ampiamente sopra il 40%) e un modesto aumento sia per Jobbik che per i socialisti, entrambi poco sotto il 20% dei consensi.
Come interpretare questi dati? Il sistema elettorale, a turno unico con 106 collegi uninominali e 93 seggi da assegnare su base proporzionale ai partiti che superano lo sbarramento del 5%, favorisce chiaramente il partito di governo nei confronti di un’opposizione frastagliata, politicamente divisa, nonché priva di risorse economiche e limitata nell’accesso ai media. Nel 2014, Fidesz fu in grado di conquistare 133 deputati, ovvero la maggioranza qualificata, a fronte di un risultato nel proporzionale del 45%. Quest’anno, tuttavia, il quadro potrebbe cambiare in quanto i partiti di opposizione – da destra a sinistra – sembrano intenzionati ad assecondare la richiesta dei loro sostenitori di coordinare le candidature nei collegi in modo da far convergere i voti sul candidato di localmente più forte.
Secondo voci sempre più insistenti negli ambienti politici di Budapest, il partito socialista, gli ecologisti-umanisti di LMP, e non da ultimo il partito dell’ex primo ministro Ferenc Gyurcsány (che raccoglie un 10% di ex simpatizzanti di sinistra), starebbero per compiere informalmente un passo considerato finora impensabile: aprire il processo di coalizione informale alla destra radicale in funzione “salvademocrazia”. Secondo le simulazioni effettuate dai sondaggisti, se il 30% dei vari partiti di sinistra si sommasse effettivamente al 20% di Jobbik, l’opposizione potrebbe strappare a Fidesz decine di collegi sinora considerati sicuri: un ribaltone in grado di negare a Orbán non soltanto i due terzi dei seggi ma addirittura di mettere a rischio la sua maggioranza assoluta sui 199 parlamentari eleggibili.
Affinchè ciò si avveri sono necessarie due circostanze concomitanti: un’alta affluenza (più vicina al 70% che al 61% delle ultime politiche) e una ferrea disciplina degli elettori di opposizione nel travaso dei loro voti su un candidato a volte molto distante dai loro gusti nei collegi uninominali. Stando a quanto raccontano gli addetti ai lavori, gli elettori di sinistra delle province manifestano ampia disponibilità a votare candidati di Jobbik, mentre resistenze assai più forti giungono dalla base del partito radicale.
Mentre infatti la dirigenza di Jobbik ha gestito negli ultimi anni una svolta intesa ad accreditare il partito radicale come alternativa democratica di governo rispetto all’autocrazia oligarchica di Orbán, parte della sua base nutre molti dubbi. E si sente più vicina ai messaggi anti-migranti e alle politiche socio-economiche di Fidesz rispetto al discorso politico – peraltro tutto da inventare – di una coalizione “arcobaleno” che nasce per caso, spinta dagli eventi e senza un programma che non sia quello di mandare a casa Orbán. L’improvvisazione, in questo caso, ha tuttavia accelerato la svolta di una campagna elettorale in cui l’opposizione sembrava ormai rassegnata non solo alla propria ennesima sconfitta, ma anche all’ulteriore estensione del potere personale di Orbán. I sondaggi continuano a fotografare un restringimento della forchetta tra Fidesz e i suoi avversari, che potrebbe incoraggiare questa evoluzione.
Negli ambienti vicini al governo regna un panico mal dissimulato che si basa in parte sull’esperienza storica (Orbán perse nel 2002 un’elezione che sembrava già vinta, dopo aver governato molto meglio che negli ultimi anni), e in parte sulla consapevolezza di aver sbagliato i toni della campagna elettorale. Può sembrare paradossale in un paese che l’anno scorso è cresciuto del 4,2%, ma fino alla sconfitta di Hódmezővásárhely il principale spin doctor del sistema di potere orbániano, Árpád Habony, aveva puntato tutto sulle tematiche “identitarie” e sull’attacco personale agli avversari politici, trascurando completamente le tematiche economiche.
La corruzione sistemica nella diversione dei fondi di sviluppo europei, unita all’arroganza della comunicazione politica e agli errori commessi durante la campagna elettorale potrebbero costare caro al primo ministro Orbán. Le prossime settimane ci diranno se il leader carismatico di Fidesz sarà in grado di rintuzzare gli attacchi e di rinnovare la propria immagine, molto appannata fra il ceto medio-alto soprattutto nella capitale e nelle città universitarie; oppure se queste elezioni segneranno la fine di una storia politica, quella di Viktor Orbán, iniziata esattamente trent’anni fa come come reazione generazionale al grigio immobilismo della soffice dittatura kádáriana.