Le due superpotenze e il Sudest asiatico

Il contenzioso su isolette e atolli nel Mar cinese meridionale è antico e riguarda controversie territoriali tra Pechino e diversi Paesi del Sudest asiatico, dal Vietnam all’Indonesia. L’ultimo episodio violento è lo scontro marittimo avvenuto il 17 giugno al largo di Second Thomas Shoal, una barriera corallina sommersa delle Isole Spratly nel Mar Cinese Meridionale, dove le forze militari cinesi hanno ferito alcuni soldati e danneggiato un paio di imbarcazioni della Marina.

 

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Il contenzioso aperto si somma alle braci sempre accese attorno a Taiwan ed è uno degli elementi che più preoccupano i Paesi della regione asiatica sudorientale. Non di meno, il presidente filippino Ferdinando Marcos ha detto che il suo Paese non ha alcuna intenzione di istigare conflitti ma “non si farà intimidire” dall’ennesimo scontro tra la Marina filippina e la Guardia costiera cinese. Il 4 luglio però, dopo che gli alleati americani avevano offerto il loro aiuto, Manila ha risposto di preferire gestire la questione da sola, come ha riferito alla Reuters il capo delle Forze armate, generale Romeo Brawner.

La base militare americana di Subic Bay nelle Filippine

 

Questo episodio e il suo corollario politico sono la spia di un rapporto difficile tra la Repubblica popolare e quello che, in un certo senso, aspira a considerare il suo “cortile di casa”. Un cortile dove per i Paesi del Sudest asiatico – nella percezione comune sia della politica che della gente comune – la Cina rappresenta sia un’opportunità sia un pericolo. Affacciati su un mare dove oltre alle fregate cinesi incrociano le portaerei americane, i Paesi della regione si chiedono come bilanciare la presenza di due potenze che non vorrebbero inimicarsi: la Cina e gli Stati Uniti. Del resto già nel 2006 un rapporto al Congresso americano (China-Southeast Asia Relations: Trends, Issues, and Implications for the United States) sosteneva che “L’impegno in rapida espansione della Cina nella regione… e l’influenza cinese nel Sudest asiatico (sono avvenute) a scapito dei legami degli Stati Uniti nell’area, anche se altri ritengono che la crescente influenza regionale di Pechino sia in gran parte naturale conseguenza del dinamismo economico della Cina”.

“C’è una notevole incertezza nel Sudest asiatico – ha scritto recentemente su East Asia Forum il professor Enze Han dell’Università di Hong Kong – riguardo a cosa significhi una Cina in ascesa quasi inesorabile nei rapporti economici con la regione. Negli ultimi quattro decenni, il Paese comunista, un tempo in povertà, è emerso come la seconda economia più grande del mondo e la prima potenza industriale, trasformando l’immagine del popolo cinese da vittima di ricorrenti carestie a grande consumatore e investitore. A causa delle immense dimensioni dell’economia cinese, della sua vasta popolazione e del suo enigmatico governo autoritario, le intenzioni della Cina nei confronti della regione rimangono un significativo punto interrogativo per i Paesi del Sudest asiatico”. Lo si evince per altro da un sondaggio uscito all’inizio di quest’anno (The State of South East AsiaASEAN Studies Centre at ISEAS 2024) che si interessa anche di questo specifico tema.

Il sondaggio rivela che in testa alle preoccupazioni dei cittadini interrogati (oltre alla crisi di Gaza allora appena scoppiata) c’è l’aggressività di Pechino nel Mar Cinese Meridionale, seguita dalla guerra russo-ucraina (il cui impatto si è fatto sentire in diversi settori dell’economia asiatica a cominciare dalla diminuzione del turismo russo) e dal fenomeno delle truffe online. Ma se si osserva il rapporto Sudest-Stati Uniti e Sudest-Cina si nota che la Cina “continua ad essere considerata nella regione il Paese più influente economicamente (59,5%), politicamente e strategicamente (43,9%), superando gli Stati Uniti – scrive il rapporto – con margini significativi in entrambi i settori”. La Cina mantiene la posizione di potenza più influente e strategica, con un leggero aumento dall’anno scorso. Al contrario, la percezione sull’influenza degli Stati Uniti è diminuita dal 31,9% dell’anno scorso al 25,8% di quest’anno anno anche se rimane, per esempio, la scelta preferita tra i filippini. La fiducia nei grandi attori dell’economia mondiale il Sudest la ripone soprattutto nel Giappone, con gli USA al secondo posto (la UE è al terzo). La metà degli intervistati (50,1%) esprimono sfiducia nei confronti della Cina, con il 45,5% di loro che teme che Pechino “possa usare il suo potere economico e militare per minacciare gli interessi e la sovranità del loro Paese”.

Benché un sondaggio non sia che uno dei tanti indicatori, il dossier ISEAS riflette un rapporto complesso e, in un certo senso, rivela una percezione del tipo: non mi fido di loro ma ci devo fare i conti, parafrasi dell’atteggiamento di Manila dopo lo scontro con i cinesi. E’ un rapporto complesso. Questa complessità si spiega, sempre secondo Enze Han, autore del recente saggio The Ripple Effect: China’s Complex Presence in Southeast Asia (Oxford University Press 2024), con almeno quattro ragioni che traducono attrazione e diffidenza: per alcuni la Cina resta il Celeste Impero che vorrebbe riaffermare le sue precedenti relazioni tributarie con il Sudest, mentre altri “temono che assomiglierà alle potenze coloniali dell’Occidente imperiale”.

Altri ancora si chiedono se la Repubblica Popolare intenda “esportare” la sua ideologia col corollario di un sistema autoritario o, più semplicemente, se la Cina sia solo interessata allo sviluppo economico e alla promozione di un’ulteriore interdipendenza economica regionale – quest’ultimo è il mantra che i cinesi portano avanti nella loro teoria che il partenariato con loro sia win win. Enze introduce anche un altro elemento: la presenza di un’importante diaspora cinese nel Sudest (10 milioni nella sola Thailandia), attiva anche nel settore dei consumi con una sempre maggior richiesta di prodotti cinesi.

La Chinatown di Bangkok

 

A fare un rapido sorvolo delle posizioni tra i dieci Paesi dell’Asean (l’associazione regionale che tra poco dovrebbe accogliere anche Timor Est) si capisce come esista una varietà di rapporti con la Cina che vanno da una non occultata ostilità del Vietnam (raffreddata dal fatto che i due Paesi sono confinanti) agli ottimi rapporti della Cambogia e del Laos dove i cinesi hanno appena costruito la linea ferroviaria ad alta velocità che collega Kunming a Vientiane. I filippini sono i più cauti. Timor Est è invece entrata nell’occhio del ciclone quando ha cominciato ad accogliere le offerte di Pechino per una maggior presenza cinese nel neonato Stato staccatosi dall’Indonesia nei primi anni Duemila. Malaysia (con una forte presenza cinese) e Thailandia tengono una posizione pragmatica, con quest’ultima che non ha mai nascosto la sua preferenza per l’alleato americano. Indonesia e Singapore sono tra i due Paesi più vicini all’idea che vada mantenuto un equilibrio a tutti i costi: politico, diplomatico ed economico, sia con i cinesi sia con gli americani.

 

Ma anche in Indonesia, le carte potrebbero rimescolarsi. Se finora il presidente Jokowi ha mantenuto la barra al centro teorizzando una neutralità attiva, durante la campagna elettorale per l’elezione del nuovo Capo di Stato, uno dei candidati, Anies Baswedan, ha detto chiaramente che Giacarta dovrebbe fare una scelta di campo: filo-occidentale. Quanto a Prabowo Subianto, il presidente appena eletto che a breve sostituirà Jokowi, le sue posizioni anti-cinesi sono note e gli americani hanno sollevato le sanzioni che gli avevano imposto (negandogli il visto) quando era generale durante la dittatura di Suharto, di cui aveva sposato una figlia (da cui ha poi divorziato). Proseguirà sulla strada di Jokowi o romperà la neutralità cara all’ormai ex presidente?

Infine Naypyidaw. La giunta birmana che ha preso il potere nel 2021 scalzando il governo civile, ha stretto legami con la Russia, l’India e la Cina, benché quest’ultima abbia dato recentemente segnali di un raffreddamento del rapporto coi golpisti. Ma certo la giunta non sta dalla parte di America ed Europa che però, sinora, non hanno voluto riconoscere il governo clandestino di unità nazionale (Nug) composto dai deputati eletti poco prima del golpe del febbraio 2021. Comunque per ora, né Washington né Pechino hanno scelto il Myanmar come terreno di scontro.

 

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Il quadro resta davvero molto variegato, ma nessuno può sfuggire alla doppia attrazione delle due superpotenze: il problema per tutti è come trovare un seppur precario punto di equilibrio. E lo stesso problema si pone in realtà anche per loro, USA e Cina.

 

 

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