Se penso alle donne arabe, l’immagine che mi viene in mente, onestamente, di istinto, è una sola: queste donne dietro la finestra, la mattina, completamente coperte, coperte fino alle caviglie mentre tu, straniera, ti vesti, libera, e vai via: e loro invece restano lì, in casa. Dietro quella finestra, a sbirciare il mondo, fuori, attraverso una tenda appena scostata. Tutto il giorno. Tutti i giorni, tutta la vita. Ho visto molto, in molti anni di Medio Oriente, ma l’immagine è quella.
Poi però una volta, ad Aleppo, mi sono ritrovata nel mezzo di un’offensiva dell’esercito siriano. Le truppe di Bashar al-Assad, all’improvviso, hanno sfondato la linea dei ribelli, e sono arrivate a poche centinaia di metri. Dovevo andare via. Immediatamente. Ma come? L’unica strada possibile era controllata da jihadisti. Eravamo al panico. Senza più alcuna lucidità. Mentre gli uomini continuavano a ripetere solo: Dio sa cosa fa, se è questa la sua volontà, Dio sa cosa fa – è comparsa alla porta la moglie del mio interprete, al settimo mese. Pronta. La borsetta in mano. E ha detto: Andiamo. Taci – le hanno detto. Che la guerra non è cosa da femmine. E lei, ferma, ha detto: Finora avete deciso voi, e guardate che disastro. Oggi decido io – e mi ha tirato via. E a ogni checkpoint, ed erano decine di checkpoint, ha finto di svenire, e con un’arma puntata addosso, prima che potessero chiedermi i documenti, e scoprirmi, ha mostrato i suoi, e ha detto: Chi volete che sia? Al settimo mese? Sto male, sto andando da un medico, questo è mio marito, questa è mia sorella. Chi volete che siano?
Quando al confine con la Turchia, dopo quasi cento chilometri sotto bombardamenti a tappeto, le ho detto: Vieni anche tu – mi ha detto solo: E’ Assad che deve andare via, non io. Ed è tornata indietro. E’ tornata ad Aleppo. A sbirciare la vita, giù in strada, dietro la sua finestra. Aveva 17 anni.
Non ho un’opinione precisa sulle donne. Soprattutto quando si parla di Medio Oriente. Di Islam. Sotto quell’hijab che fa tutte uguali, apparentemente, tutte anonime e passive, le musulmane in realtà sono una diversa dall’altra.
E anzi, l’hijab è il primo dettaglio che ho imparato a esaminare, adesso, quando cerco di capire chi ho davanti: perché il suo colore, il suo taglio, il modo in cui è abbinato a una camicia, o a un tacco alto, o basso, dice moltissimo dell’identità di chi c’è sotto. Ma poi: non è stato proprio il femminismo a insegnarci che non conta il corpo, ma la testa? Quello che c’è dentro, non quello che c’è fuori?
Le donne, in guerra, sono state sempre le vittime per eccellenza. Anche se in realtà, le Convenzioni di Ginevra non riservano alle donne un regime di protezione particolare. A parte alcuni articoli che, qui e lì, si riferiscono specificamente alle donne, obbligando per esempio i combattenti ad assicurare il passaggio di cibo e vestiario essenziali alle madri e ai minori di 15 anni, la disposizione più rilevante è l’articolo 27 della IV Convenzione, dedicato alla tutela della persona e del suo onore, e della sua dignità. Quel punto prescrive un rispetto speciale per le donne contro il pericolo di stupro e prostituzione forzata – e in effetti lo stupro sistematico, che ha caratterizzato la guerra di Bosnia, e poi altri conflitti etnici africani, è ora qualificato come crimine di guerra dalla giurisprudenza penale internazionale. Ma complessivamente, le Convenzioni di Ginevra sembrano riconoscere piuttosto che la verità, in guerra, è un’altra: e cioè che le vittime per eccellenza non sono le donne, o i bambini, o gli anziani: sono i civili. Tutti.
Ciò è stato vero soprattutto nelle guerre di questi ultimi anni, in cui gli eserciti sono stati sostituiti da milizie e formazioni paramilitari e irregolari di ogni tipo. Più che una linea del fronte, esiste ormai un’area del fronte: una terra di nessuno in cui tutto è permesso, tutto è un obiettivo – e in cui il danno collaterale sono i combattenti, non più i civili, perché si vince o si perde in base alla propria capacità non di sconfiggere un nemico spesso evanescente o appunto irregolare, ma di sottomettere la popolazione. Sono saltate tutte le regole. Tutti i freni. E i genitori, per esempio, se per le figlie temono lo stupro, per i figli temono la sparizione: e i primi che aiutano a fuggire sono i maschi e non le femmine.
In queste guerre, se le donne hanno un ruolo speciale non è tanto come vittime, ma come arma. Come arma di propaganda. E mai è stato più evidente che in Siria: con la contrapposizione tra le eroine curde e le schiave yazide. Che è però anche, più sottilmente, la contrapposizione tra il progresso e l’arretratezza, tra la laicità e l’Islam. Tra la nostra libertà e la loro oppressione.
I curdi, e le curde, sono stati i primi a chiedere ai giornalisti più obiettività. Ma il Rojava, il Kurdistan siriano, con il suo esperimento di governo dal basso, di governo diretto, è diventato subito l’icona di un nuovo Medio Oriente. Un Medio Oriente diverso. Plurale. Inclusivo. E persino ugualitario e socialista. E l’icona dell’icona sono state le sue 15mila combattenti: il 35% dell’esercito. Eppure, la democrazia non è solo, e tanto, elezioni. Il principio della doppia leadership, per cui in Rojava ogni carica pubblica è doppia, costituita insieme da un uomo e una donna, certo, colpisce. Ma più che dal rispetto della volontà della maggioranza, la democrazia si valuta dal rispetto dei diritti delle minoranze. E su questo, come abbiamo poi letto nei rapporti di Amnesty International, i curdi non si sono rivelati molto diversi dagli altri: nei confronti degli arabi, ma soprattutto, dei dissidenti. Che sono finiti spesso nel mirino del potere, come nel resto del Medio Oriente. Un Medio Oriente con cui i curdi condividono ciò che è più agli antipodi della democrazia: il culto del capo. Il ritratto di Abdullah Ocalan è appeso ovunque. “Be serok jiyan nabe”, c’è scritto. Non c’è vita senza leader.
In fondo, nessuno di noi considererebbe come una forma di emancipazione le brigate femminili di al-Qaeda, o le attentatrici suicide dello Stato Islamico. Perché combattere, che poi significa: assassinare, non è una forma di libertà. Mai. L’emancipazione non sta al fronte, ma nella società di cui si è parte. Per le israeliane, è forse emancipazione partecipare a pieno titolo all’occupazione dei palestinesi? Cercavamo davvero un modello, in Rojava, o un simbolo? Un modello per le nostre azioni, o solo un simbolo per il nostro immaginario?
In Europa pochi conoscono il suo nome, ma in realtà, anche l’emblema della rivoluzione, in Siria, è una donna. Si chiama Razan Zaitouneh, ed è uno dei più noti avvocati di Damasco. O forse, era. Ha fondato il Violations Documentation Center, denunciando per mesi i crimini sia del regime sia dei ribelli: e nel 2013, è stata infine sequestrata da Jabhat al-Nusra (l’affiliazione siriana di al-Qaeda). Da allora, nessuno ha più avuto sue notizie.
Ma per molti europei, invece, l’emancipazione femminile in Siria ha l’aria glamour e lo smalto impeccabile di Asma Assad, la moglie di Bashar. Nata a Londra da genitori di Homs, lavorava come analista finanziaria, e stava per iniziare un MBA a Harvard quando, nel 2000, ha sposato Assad, appena diventato presidente. Con il suo Syrian Trust for Development, che finanzia una miriade di attività filantropiche a sostegno dei più poveri, e oggi, anche la ricostruzione, si è guadagnata nel 2011 la copertina di Vogue, definita come “la più nuova e magnetica delle first lady”. In tutti questi anni, è stata perfetta per Assad. Bella, colta, moderna. Laica. E persino sunnita. Ma quanto è moderna una donna che di mestiere fa da spalla al marito? Che si dedica alla beneficenza, come le aristocratiche di un tempo? In tutti questi anni, non ha detto una parola sulla guerra.
Per ora, è troppo presto per capire quale sarà il ruolo, e la forza, delle donne nella Siria di domani – non fosse altro perché è troppo presto per capire quale sarà la Siria di domani. Ma come in ogni guerra, anche in questa si è avuto un profondo rimescolamento sociale, perché quando si combatte, i meccanici, gli operai, i contrabbandieri sono molto più utili degli avvocati, degli architetti: dopo cinque anni e 500mila morti, e metà della popolazione sfollata o rifugiata, in Siria è saltata ogni gerarchia – e in guerra le donne, come è noto, spesso si ritrovano a sostituire gli uomini al fronte, conquistando un’autonomia a cui poi non rinunciano più.
Quello che è certo, è che non è mai la nostra libertà contro la loro oppressione, le nostre eroine contro le loro schiave: è sempre questione, piuttosto, di diverse forme di libertà, e diverse forme di oppressione – perché come diceva Rossana Rossanda: essere donne poi è tutto un lavoro, una prescrizione e un dubbio.