La sera della sua morte, le agenzie di stampa hanno definito Saleh al-Arouri, ucciso la mattina del 2 gennaio a Beirut da un drone israeliano, “un alto dirigente di Hamas”. Ma Saleh al-Arouri era molto di più: era l’architetto del 7 Ottobre. E la sua scomparsa cambia non solo il corso della guerra: cambia il corso di Hamas.
All’estero dal 2007, Saleh al-Arouri era il capo delle Brigate al-Qassam nella West Bank: il braccio armato di Hamas. Ma era anche il numero due del Politburo dell’organizzazione, ed era considerato il più probabile successore di Ismail Haniyeh, il numero uno che da quattro anni opera da Doha, in Qatar. La sua fama era legata a Gilad Shalit, il carrista dell’esercito israeliano rilasciato nel 2011, dopo cinque anni sotto sequestro a Gaza, in cambio di 1.026 prigionieri palestinesi – tra cui Yahya Sinwar, l’odierno capo di Hamas. Saleh al-Arouri aveva guidato le trattative con Israele. E da allora, era stato il principale sostenitore della tattica dei sequestri: considerati la più efficace delle armi.
Ha saputo tessere una complessa tela politico-militare. Da quando, nel 2020, con gli Accordi di Abramo, era iniziata la normalizzazione tra Israele e i Paesi del Golfo, Arouri era stato il regista del riarmo della West Bank. E dell’ultima Intifada, quella della tensione crescente prima del 7 Ottobre. Largamente foraggiata dall’Iran. L’idea era una sorta di staffetta tra Gaza e la West Bank. Anche perché Saleh al-Arouri era soprattutto uno dei tessitori dell’unità nazionale palestinese. Con Jibril Rajoub, segretario del Comitato Centrale di Fatah, e quindi numero due di Mahmoud Abbas, a cui era molto vicino dai tempi dell’università a Hebron, aveva siglato l’intesa del 2021 per nuove elezioni. E l’inclusione di Hamas al governo della Cisgiordania.
Saleh al-Arouri contava molto più di Yahya Sinwar; stando all’estero, aveva più libertà di manovra. Era l’uomo dell’Iran, sì, perché con Teheran condivideva l’interesse di fatto a fermare la normalizzazione di Israele nel mondo arabo, che stava procedendo spedita con gli Accordi di Abramo. Ma prima che a Beirut, aveva vissuto in Siria, in Turchia e in Qatar. Aveva rapporti stretti e diretti con tutti i protettori di Hamas. Con la sua eliminazione, Israele intanto spegne ogni ultimo focolaio di una West Bank già duramente provata da mesi di raid e retate. Ma soprattutto, bombardando Beirut, e non un’area qualsiasi di Beirut, ma la Dahiyeh, il feudo di Hezbollah, va a smascherare Hassan Nasrallah. Il capo della milizia filo-iraniana, informato poco e male del 7 Ottobre, e con un Libano alla bancarotta, non ha mai avuto alcuna intenzione di intervenire davvero in soccorso di Hamas. E ora con la sua reazione si gioca la reputazione.
Nel frattempo, l’esercito israeliano continua a demolire Gaza. L’ONU calcola che oltre il 70% delle abitazioni sia da ricostruire. Che sia vero o meno che lo scopo ultimo di Netanyahu sia quello di forzare I palestinesi ad andare via per sempre, il ritorno a casa degli sfollati si fa ogni giorno più difficile. Per adesso, il premier israeliano sta vincendo su tutti i fronti – almeno dalla sua prospettiva: riuscendo a schivare le responsabilità più grosse per lo smacco tattico del 7 Ottobre, portando a termine l’omicidio mirato di altri dirigenti importanti di Hamas, e magari facendo sì che i palestinesi non possano più tornare in una Gaza ridotta in polvere, potrebbe trovarsi – anche vista la debolezza dei suoi avversari – con le carte giuste per restare ancora al potere. Poi, certo: vincere il dopoguerra è una storia molto diversa. E molto più complicata.
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Gli omicidi mirati sono una specialità di Israele. Ma sono sempre stati uno strumento di efficacia strategica illusoria ed effimera. Il fondatore dell’Islamic Jihad, Fathi Shaqaqi, è stato ucciso nel 1995 a Malta. Il fondatore di Hamas, Ahmed Yassin, nel 2004 a Gaza. Imad Mughniyeh, che coordinava gli attentati di Hezbollah, è stato ucciso in Siria nel 2008. Eppure, l’Islamic Jihad, Hamas e Hezbollah sono ancora oggi i maggiori nemici di Israele. Più pericolosi che mai. E più popolari che mai.
Ma soprattutto: dentro Hamas, chi è più radicale? L’assassinio di uno dei capi può influenzarne la linea, o le decisioni? Il più delle volte, si discute di Hamas in termini di un’ala politica e un’ala militare, ma lo stesso Yahya Sinwar cos’è se non un leader politico e militare insieme? Certi schemi sono fuorvianti. Hamas ha un’ala interna, è vero, basata in Palestina, e un’ala esterna; ha un’ala più vicina al Qatar e al mondo sunnita e un’altra più vicina all’Iran e all’asse sciita, e ha vari leader, ognuno con il suo carattere, le sue ambizioni, le sue idiosincrasie. Ma poi c’è la strategia.
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Diversamente da altri movimenti islamisti, Hamas, come è noto, è un movimento di liberazione nazionale, concentrato sulla Palestina e basta, ma in questo Yahya Sinwar è il più deciso: nella storia di Hamas, Yahya Sinwar è il primo che “usa” i suoi interlocutori arabi, invece di esserne usato. Che chiede agli arabi, cioè, di essere di parola. E battersi per i palestinesi. Con il 7 Ottobre ha tentato di costringere Nasrallah, e l’Iran, a intervenire. E ora, naturalmente, è visto, o meglio, malvisto, come uno imprevedibile. Uno che non sta alle regole: che pensa prima di tutto ai suoi interessi. Il resto di Hamas, invece, sta nel solco di sempre: convinti che con il chiaro squilibrio di forze in favore di Israele, l’unica sia allargare il conflitto agli arabi. Con tutti i vincoli che ne derivano. Ma avere più vincoli significa necessariamente essere meno estremisti?
Eliminando Saleh al-Arouri, e quindi, la Hamas del 7 ottobre, si elimina la Hamas che in questi anni ha cercato di sfidare con ogni mezzo il blocco di Gaza, e nella West Bank l’Occupazione. Rimane la Hamas-pedina delle varie potenze del Medio Oriente. Potenze per cui Israele spesso non è che un pretesto. Non è che il nemico a cui imputare ogni colpa e ogni fallimento. Ad libitum. Rimane la Hamas di una guerra infinita.