Le ambizioni turche dopo l’errore saudita

Tra le tante conseguenze politico-diplomatiche che ha avuto, l’affaire Khashoggi ha offerto una nuova occasione alla Turchia del presidente Recep Tayyip Erdoğan per accreditarsi come forza ragionevole e affidabile sulla ribalta internazionale, e come alleato imprescindibile dell’Occidente nel garantire stabilità all’area mediorientale.

Quest’occasione si è presentata in modo inaspettato, scaturita dall’assassinio del giornalista e dissidente saudita nel consolato d’Arabia a Istanbul il 2 ottobre. Ma le autorità turche sono state abili nel delinearne subito gli aspetti essenziali, nel mobilitare i media internazionali per fare pressione contro Riyad, nel mostrare fermezza chiedendo giustizia per Jamal Khashoggi senza però provocare una crisi bilaterale.

Il Consolato saudita a Istanbul

 

I diplomatici turchi hanno perseguito un duplice obiettivo: isolare il principe ereditario Mohammad bin Salman (considerato ostile ad Ankara); riavvicinarsi agli Usa di Donald Trump dopo le tensioni degli ultimi anni – politiche confliggenti in Siria, rapporti con l’Iran, processi a cittadini americani. In questa fase, sembrano aver conseguito una buona dose di successo.

Il professor Hamid Dabashi, esperto di cinema, sul sito di Al-Jazeera ha paragonato la strategia comunicativa di Ankara allo stile investigativo del “tenente Colombo”: già all’inizio dell’episodio era noto il colpevole, mentre il personaggio interpretato da Peter Falk procedeva nell’inserire i dettagli man mano scoperti in un insieme coerente, presentandoli ad uno ad uno al sospetto per indurlo alla fine a confessare.

Proprio quanto ha fatto la Turchia: rivelazioni continue e sempre parziali per mantenere alta l’attenzione del sistema mediatico, che hanno costretto l’Arabia Saudita a rivedere man mano la propria versione dei fatti. Fino a renderla sempre più simile a quella fornita dai turchi dell’omicidio premeditato (in buona sostanza, a confessare), e quindi a perdere la faccia più e più volte.

I momenti culminanti di questa strategia comunicativa sono stati finora due: il primo è l’op-ed di Erdoğan pubblicato dal Washington Post il 2 novembre. Il secondo è la dichiarazione, sempre del presidente turco, alla vigilia delle celebrazioni della fine della Prima guerra mondiale dell’11 novembre a Parigi, con la quale ha riferito della precedente consegna a vari paesi – dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita – dell’audio che certifica l’omicidio Khashoggi nel consolato di Istanbul.

L’editoriale sul Washington Post è una sintesi completa della posizione turca. Esprime fastidio per un’operazione tanto efferata sul proprio territorio, annuncia perseveranza nella ricerca sia degli esecutori materiali sia dei mandanti, esonera il re saudita Salman e quindi lo Stato saudita pur chiamando in causa i suoi massimi livelli. Non fa nomi: ma l’attacco al principe ereditario Mohammad bin Salman, e non appunto all’Arabia Saudita come Stato, è evidente.

Innanzitutto, Erdoğan ha fatto capire che la Turchia considera l’omicidio di Istanbul come una violazione dei suoi interessi nazionali. In effetti, nell’ex capitale ottomana risiedono e lavorano in buon numero di esuli e dissidenti yemeniti, egiziani, siriani (spesso legati all’islam politico moderato sponsorizzato da Ankara): l’omicidio Khashoggi evidenzia una situazione di potenziale pericolo per chi in precedenza si sentiva al sicuro dai servizi dei paesi di appartenenza: le garanzie d’incolumità vanno quindi ripristinate.

Tra l’altro, l’esule saudita era proprio di origini turche (probabilmente di Kayseri) – il cognome dei suoi avi che si trasferirono nel Golfo era Kaşıkçı, “fabbricante di cucchiai” – e quindi quanto accaduto assume una rilevanza simbolica ancora più forte: suolo turco quello dove è stato commesso l’omicidio, sangue turco quello di Khashoggi.

In secondo luogo, Erdoğan ha sostanzialmente convalidato quanto traspariva dalle sue esternazioni e dalle sue azioni: la Turchia non ha nessuna intenzione di aprire una crisi bilaterale con l’Arabia Saudita. Alcuni analisti, a questo proposito, hanno chiamato in causa – per spiegare le ragioni di questa posizione moderata – gli investimenti sauditi e degli altri paesi del Golfo da preservare (circa 19 miliardi di dollari), in un contesto economico critico per le finanze turche. D’altronde, una rottura completa con Riyad, che in questa fase sembra comunque rimanere partner insostituibile di Washington in Medio Oriente, vanificherebbe il tentativo di riavvicinamento della Turchia agli Stati Uniti.

Una posizione simile era stata assunta da Ankara in fasi di divergenza politica ancor più pronunciata, nel recente passato: in occasione del golpe di Al-Sisi in Egitto, appoggiato da Riyad e rifiutato da Ankara; in occasione del tentativo di golpe in Qatar, ispirato dai sauditi e attivamente contrastato dai turchi. Prima di partire per Parigi, Erdoğan ha ribadito la sua linea facendo cenno a reciproche visite di emissari dei due paesi (i temi affrontati non sono stati resi noti, però).

Infine, il Presidente turco ha implicitamente individuato in Mohammad bin Salman il responsabile principale di quello che per l’appunto è percepito come un atto ostile contro la Turchia. Nelle parole di Erdoğan si può leggere un invito al re affinché escluda dalla successione al trono il principe ereditario, che sarebbe ormai screditato sul piano internazionale e in particolare agli occhi di Trump, o comunque ne riduca concretamente l’influenza. Un eventuale sacrificio che non va interpretato sul piano personale ma su quello squisitamente politico

İbrahim Karagül, che scrive per il quotidiano filo-governativo Yeni Şafak, ritiene che il principe ereditario Mohammad bin Salman, in combutta con un altro principe, Mohammed bin Zayed degli Emirati Arabi Uniti, abbia finanziato il fallito colpo di Stato in Turchia del 2016, e sostenga l’organizzazione terroristica curda PKK e il suo ramo siriano. Abbastanza per rappresentare il male assoluto agli occhi di Erdoğan. Nella visione complottista del giornalista turco, il principe saudita è sul punto di scatenare una guerra fratricida – tra paesi arabi e Iran, tra sunniti e sciiti – che porterà alla disgregazione del Medio Oriente come lo conosciamo oggi, con inattese conseguenze devastanti per gli stessi sauditi. Karagül evoca la convergenza tra USA, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e Israele in funzione per l’appunto anti-iraniana e adduce come prova del complotto – mostrando incoerenza logica – l’articolo dell’analista americano Ralph Peters su Armed Force Journal nel 2006, in cui si suggeriva la nascita di un Kurdistan indipendente su territori oggi turchi ma anche l’istituzione a Mecca e Medina – i luoghi sacri dell’islam – di uno stato autonomo.

Complottismo a parte, è evidente come Ankara abbia ben altri disegni: vuole confermarsi come riferimento dell’islam politico moderato, vuole disinnescare l’attivismo revisionista di Mohammad bin Salman, non vuole altra instabilità ai propri confini e quindi rigetta ogni ipotesi di scontro tra mondo arabo e Iran. L’omicidio Khashoggi le ha paradossalmente fornito un’opportunità per realizzare questi ambiziosi disegni.

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