La Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen parte con un buon biglietto da visita in politica estera. Ovviamente la prima figura con questa qualifica, e che non può farne a meno, è quella dell’Alto Rappresentante per la Politica estera e di sicurezza, nonché Vicepresidente dell’esecutivo, Josep Borrell.
Anche von der Leyen negli anni in cui è stata Ministro della Difesa in Germania si è occupata di politica estera, e lo ha fatto in una chiave che potrebbe anche essere utile, nel senso dell’impostazione del lavoro, nell’incarico attuale: come in Germania lavorava a portare quello scalcinato esercito a giocare un ruolo più incisivo al di fuori dei confini, così la grande sfida che ha ora la presidente è quella di portare l’Unione ad avere un peso maggiore nel quadro geopolitico, che non sia solo di pur importante “facilitatore” in situazioni complesse come fu l’accordo del 2015 per il nucleare iraniano, ma che riesca ad avere un rilievo anche nel quadro della difesa.
Anche uno dei due Vicepresidenti esecutivi della Commissione, Frans Timmermans, ha un passato nella politica estera, quale ministro degli Esteri dei Paesi Bassi, E’ sua la responsabilità della principale politica che questo esecutivo ha finora lanciato, il Green Deal, che ha evidenti implicazioni internazionali nei suoi obiettivi e grandi implicazioni sull’unità tra gli Stati membri.
Le credenziali dunque ci sono tutte. Il problema, oggi come sempre, è quello della frantumazione dei poteri in Europa per quanto riguarda la politica estera, che invece, insieme al rilancio della struttura economica, è probabilmente la più indispensabile politica europea nei prossimi anni. Visto anche l’abbandono britannico del club, oramai alle porte, che porterà con sé anche una perdita netta per la posizione che l’Unione occuperà nel mondo.
Le due crisi di queste settimane non fanno ben sperare. Nessun ruolo si sta giocando riguardo alla partita tra Stati Uniti e Iran, se non quello, meritorio, di tentare di salvare l’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) e una posizione di fatto secondaria è quella nella partita libica, dove si è assistito impotenti alla presa di importanti spazi da parte di Russia e Turchia in un paese che è sostanzialmente al confine dell’Unione. La conferenza di Berlino del 19 gennaio – a guida tedesca – ha raggiunto almeno qualche obiettivo parziale, ma gli esiti sono tutti da verificare.
Insistendo su quanto Borrell disse nella sua audizione in Parlamento europeo nello scorso ottobre: “L’UE deve imparare a usare il linguaggio del potere” (concetto ribadito a metà gennaio parlando a Nuova Delhi, quando ha aggiunto “essere un soft-power non è abbastanza”), von der Leyen ha recentemente affermato che l’Unione deve diventare “più assertiva” in politica estera, sostenendo anche che ci sono gli strumenti per farlo. Questi strumenti, e qui si torna però al rilancio economico, sono sostanzialmente nella potenza commerciale dell’Unione (ad oggi il più ricco mercato mondiale), che può essere utilizzata anche a scopi geopolitici.
In ogni caso, sul terreno della politica estera il nodo più difficile da sciogliere è quello del ruolo degli Stati membri. A quanto pare solo di fronte all’invasione, per ora quasi solo politica, di Mosca e Ankara di una regione così prossima all’Unione stati come Francia e Italia stanno tentando un approccio comune con Germania e Commissione. Si possono avanzare dei dubbi che questo modo di operare possa durare in futuro, gli interessi nazionali restano concorrenti, ma qui si gioca la prima sfida di von der Leyen e Borrell nel tentare di portare l’Europa ad avere la famosa “unica voce” in politica estera. Si potrebbe mettere un primo mattone nella strategia dell’Alto Rappresentante che punta a un’azione in questo campo “veramente integrata, che combini il potere degli Stati membri, agendo insieme nel Consiglio”.
L’abbandono della Gran Bretagna è in sè una tragedia vera; ma con questa Gran Bretagna, tutto sommato, nel settore della proiezione internazionale potrebbe essere un vantaggio. Boris Johnson ha chiaramente scelto di diventare un paladino di Donald Trump, vuole cambiare l’accordo con l’Iran del 2015 in un “accordo Trump”, e guarda oramai senza alcuna riserva al partner statunitense come l’alleato da seguire, anche per tentare di scardinare proprio l’unità europea. Se non ci fosse stata la Brexit probabilmente non ci sarebbe stato neanche questo governo a Londra. Ma così stanno le cose, e con queste ci si deve confrontare. Almeno per qualche tempo.
Da dove cominciare dunque? Detto che il colosso commerciale che è l’Unione non corrisponde per ora ad un colosso in politica estera, bisogna usare il primo come volano per la seconda. Dunque, risolte in qualche modo le questioni legate all’agricoltura e ai fondi di coesione (ma forse sfruttando anche le “utilità marginali” che questi possono offrire per altre politiche) i due strumenti che ha la Commissione, e gli Stati che ci vogliono stare, sono il Green Deal e il bilancio settennale che dovrà essere varato quest’anno. Da una parte il bilancio settennale dovrà essere in grado di garantire il rilancio e l’ammodernamento economico dell’Unione e dall’altro può fornire strumenti per aiutare l’affermazione geopolitica dell’UE, fornendo strumenti a settori come la difesa, la cooperazione internazionale.
In realtà molte politiche dell’Unione dovrebbero essere riviste per rafforzare questo fronte, come quelle per la concorrenza, che riguardano l’altra Vicepresidente esecutiva che siede in Commissione accanto a Timmermans, cioè Margrethe Vestager. Qui la questione da superare sono le regole, troppo strette, troppo “regionali” imposte alla competizione fra le imprese. Deve diventare possibile cioè creare grandi attori europei in grado di incidere sul mercato globale, e concorrere con i giganti sino-statunitensi. Il quadro oramai è quello, non solo per la crescita economica, ma anche per il peso politico internazionale. E ci piace pensare che anche il Green Deal abbia un peso in questo senso: non solo per irrobustire l’economia dell’Unione, ma anche perché l’Europa torni ad essere un punto di riferimento industriale mondiale, perché la riconversione “verde” diventerà, presto o tardi, un’esigenza diffusa.
“Siamo protagonisti in cerca di identità – ha ammesso Borrell a Delhi – e dobbiamo chiederci: vogliamo essere giocatori o il campo di gioco? E se vogliamo giocare, in che ruolo? Questa è una domanda difficile perché gli europei hanno storie diverse e dobbiamo costruire una storia comune. Queste storie diverse hanno formato una diversa visione del mondo. Il risultato è che non abbiamo una comune cultura strategica”. Da qui si deve partire, e c’è molto da fare.