Lavorare di più o forse troppo in nuovi settori, nell’economia 4.0

Il dibattito di questi anni ha messo in chiaro un dato: la quarta rivoluzione industriale distrugge alcuni lavori in determinati settori ma ne crea alcuni nuovi in altri. Non è pero ancora altrettanto chiaro che il saldo tra creazione di nuovi lavori e scomparsa di vecchi lavori è figlio di alcune peculiari variabili della congiuntura storica in cui questa rivoluzione si iscrive.

Da qui, i parallelismi tra la rivoluzione in corso e quelle del tutto diverse che l’hanno preceduta, e la polarizzazione della discussione: da una parte, i sostenitori della disoccupazione tecnologica ela relativa “disruption” temuta da John Maynard Keynes durante la seconda rivoluzione; dall’altra, i sostenitori della potenza “constructive” delle tecnologie protagoniste delle terza. E i conseguenti balletti dei numeri sull’entità di tale saldo.

Meritano attenzione soprattutto tre delle peculiari variabili dell’attuale congiuntura storica. La prima è la nuova geografia dei lavori, la seconda è il mutamento demografico, la terza è la crescente perdita di fiducia dell’uomo verso l’altro uomo.

Partendo dalla geografia, come noto i lavori sono confluiti dall’area dell’industria a quella del lavoro intellettuale e dei servizi.

Tale variazione è stata conseguenza, da un lato, dell’innalzamento del livello culturale della popolazione, che ha rinnegato il duro lavoro in fabbrica dei padri, dall’altro, dei processi di automazione avviati sin dagli anni settanta che negli Stati Uniti, ad esempio, hanno portato l’industria ad incidere sull’occupazione dal 26% del 1960 a meno del 10% nel 2017.

Rispetto a questa prima variabile, la quarta rivoluzione industriale facilita i processi, ed anzi ne amplia la portata.

Essa, infatti, in primo luogo, aumenta la richiesta dei lavori intellettuali perché crea occupazione che richiede abilità come il pensiero computazionale, quello logico e matematico, il problem solving, la capacità di lavorare in team.

Per questo, potrebbe invertirsi anche il trend dell’emigrazione dei giovani italiani che, secondo il rapporto Istat nel 2018, lasciano il Paese per svolgere lavori di natura intellettuale: quelli con più di 24 anni, nel corso del 2016, ammontavano a circa 54 mila unità e nella fascia di giovani dai 25 ai 39 anni, quasi il 30 per cento era in possesso di un titolo universitario o post-universitario.

In secondo luogo, la rivoluzione in atto aumenta la richiesta di lavoro nel campo dei servizi, in particolare di quelli offerti dalla c.d. industria del benessere (ad esempio, cosmetica, fitness, salute pubblica e medicina, terme), che registra una crescita media annua mondiale del 6,4% dal 2015, ovvero il doppio rispetto alla crescita economica globale (+3,6%), con circa 120 mila occupati soltanto in Italia.

Ed infatti, la riduzione dei tempi di lavoro che deriva dall’interazione con le tecnologie 4.0. amplia i margini del tempo che i lavoratori possono impiegare per prendersi cura di sé.

La seconda variabile, quella demografica, suggerisce di prendere in considerazione il graduale e crescente invecchiamento della popolazione[1].

Rispetto a tale variabile, la quarta rivoluzione industriale è in grado di alimentare un circuito occupazionale del tutto nuovo, quello della gig economy, la c.d. economia dei lavoretti.

Grazie infatti all’intermediazione di piattaforme virtuali, modello Uber, le persone anziane hanno gioco facile a richiedere ai tanti lavoratori ad esse connessi un’assistenza che può tradursi nella consegna di generi alimentari, nel trasporto di persone, nel lavaggio di indumenti, nella pulizia degli appartamenti o nella loro manutenzione, nella consegna di abiti.

La gig economy vale già ora, soltanto in Italia, 3,5 miliardi di euro ed impiega 700.000 lavoratori di cui 150.000 a tempo pieno mentre negli Stati Uniti la forza lavoro impiegata, nel 2017, era pari al ben il 10,1%  del totale della forza.

La terza variabile esprime, infine, la tendenza dell’uomo contemporaneo a rinunciare all’empatia e alla relazione con l’altro per il definitivo venir meno della reciproca fiducia.

Rispetto a questa variabile, la rivoluzione in atto vive ancora oggi una contraddizione in termini. Per un verso, asseconda questa tendenza: Amazon è privilegiato al tradizionale commerciante, il recruitment artificiale al recruitment umano, l’assistenza di un robot rischia di essere privilegiata a quella umana in diversi campi come quello medico o legale.

Per altro verso, genera tecnologie che, contro tale tendenza, attivano processi in grado di ricreare reciproca fiducia nei rapporti umani e commerciali. La blockchain, ad esempio, è in grado di certificare, senza possibilità di errori, la provenienza di un prodotto, come ad esempio accade per i generi alimentari, la veridicità di un dato, come può accadere per la rappresentatività delle associazioni sindacali, o la veridicità delle qualità di una persona, come accade per i curriculum dei candidati in determinate posizioni lavorative.

In entrambi i casi, la tecnologia ha dato corso ad occasioni di lavoro nuove in contesti del tutto nuovi.

In conclusione, le tre variabili prese in considerazione suggeriscono un saldo positivo tra la comparsa di nuovi lavori e la scomparsa di vecchi lavori grazie alla quarta rivoluzione industriale, in linea con le previsioni del “The future of jobs report  2018“ che stima tale saldo all’1%.

Ed allora, ha ragione Domenico De Masi ad affermare nel suo ultimo articolo per Aspenia che “lavorare meno” è una conseguenza di questa rivoluzione perché essa distrugge posti di lavoro ma a condizione che si soggiunga: “per lavorare di più o forse troppo in altri settori, spesso nuovi”.

 

 

 

 

Note:

[1] Come sottolineavo in un precedente articolo per questa rivista, secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, nel 2020 la popolazione anziana supererà quella dei bambini sotto i 5 anni; nel 2050, gli over 60 dagli attuali 900 milioni passeranno a quasi 2 miliardi. Inoltre, entro il 2050, gli ottantenni saranno 120 milioni solo in Cina, e 434 milioni nel resto mondo.

economytechnologyinnovationunemploymentfutureAI
Comments (0)
Add Comment