Le vittime di Dacca hanno portato il Bangladesh, la relativamente piccola repubblica parlamentare a cerniera tra il sub-continente indiano e l’estremo oriente, all’attenzione della coscienza occidentale.
Dopo la strage di occidentali del 1°luglio che ha ucciso complessivamente 23 persone (oltre a 5 degli assalitori), tra cui nove italiani, l’interrogativo per cercare di darsi una bussola potrebbe esser cosi formulato: ci troviamo di fronte a un fenomeno terroristico globale con connessioni precise e rintracciabili, o invece si è consumato un dramma tutto interno alla società bengalese che non ha relazione con l’esterno?
In effetti dovremmo sempre guardarci dall’equazione “media globali uguale vicende globali”. Che il mondo sia interconnesso – in termini di comunicazione e infrastrutture tecnologiche – è un fatto e che i principali network abbiano oggi la capacità di monitorare gli accadimenti in tempo reale a qualsiasi latitudine lo è altrettanto. Ma la relazione tra l’insorgenza di Boko Haram nell’Africa occidentale e il fenomeno jihadista in Bangladesh o, perché no, nelle Filippine è tutta da dimostrare. E non possono bastare, a sostegno di quest’ultima tesi, slogan elementari a uso dei social media, di cui le sigle jihadiste peraltro fanno largo uso rivendicando spesso tatticamente azioni con le quali non hanno alcun legame diretto.
Certo la coscienza occidentale non parve così scossa dalla tragedia del Rana Plaza (sempre nell’area urbana di Dacca), quando nell’aprile del 2013 crollò il palazzo di otto piani che uccise oltre 1.200 persone ferendone 2.500. Le vittime erano operai impiegati negli stabilimenti tessili dove si lavorava per importanti multinazionali occidentali. Si porta questo esempio non certo per evocare o magari giustificare improbabili vendette dettate dall’ingiustizia sociale, e neppure come scontata conferma che, nella percezione diffusa, il valore delle vite muta col mutare della latitudine; ed è ben noto che, anche per le tragedie più sconcertanti (si pensi ai quotidiani annegamenti di migranti nel Mediterraneo), subentra l’assuefazione.
L’esempio dell’edificio crollato nel 2013 è utile piuttosto per sottolineare che i nessi sono là dove si vogliono, o non si vogliono, vedere. La rimozione della tragedia del Rana Plaza è stata quasi totale, (si pensi, mutatis mutandis, al numero di vittime delle Torri Gemelle alte 110 piani e del numero di vittime di Dacca per capire la densità umana stipata in quegli otto piani) sebbene essa coinvolgesse importanti marchi occidentali (e italiani). Un atteggiamento di attenzione “selettiva” confermato dalla gestione stessa del post-tragedia, ossia con appena 7 aziende su 29 che hanno riconosciuto responsabilità e indennizzi di 200 dollari a vittima per le famiglie monoreddito coinvolte, nonostante l’evidenza dei fatti acclarati e la loro diretta correlazione con quelle attività manifatturiere.
Bisogna quindi prestare molta cautela, analizzando l’episodio terroristica del 1° luglio, a non commettere l’errore opposto, e cioè credere che il franchising dello Stato islamico possa attivare cellule kamikaze da Istanbul a Dacca. Un’analisi così confezionata sarebbe facile da capire e tolgierebbe ogni dubbio sulla minaccia che ci riguarda. Isis o meno, è però indubbio che ci troviamo di fronte ad una escalation, in chiave locale e, numeri alla mano (dopo Parigi, Bruxelles, Orlando, Istanbul, Baghdad, solo per citare alcuni tra i tanti episodi recenti) quasi-globale. In chiave locale, sono più di quaranta le vittime da attribuirsi all’estremismo di matrice islamica negli ultimi tre anni in Bangladesh. Di più, la strage di Dacca è la prima di tipo collettivo e quindi segna una svolta nel pluridecennale antagonismo dei gruppi islamisti locali.
Al momento poco può essere azzardato come analisi relativa a possibili reti e contatti internazionali, ma di certo in questa fase il paese godeva di una sostanziale tranquillità politica interna, era ed è un serio alleato dell’occidente nella lotta al terrorismo, e la sua economia – certo alla luce di sperequazioni clamorose – è in poderosa crescita. Più netto invece appare il giudizio sulle forze di intelligence, che sono state colte in totale di sorpresa dal commando in azione il 1° luglio, in un luogo frequentato da molti stranieri.
Dotandoci di una qualche prospettiva storica, sappiamo che il Bangladesh è l’ultimo episodio storico della complessa partizione indiana, e cioè della divisione politica, etnica e religiosa che nell’India post-coloniale britannica ha sancito la nascita del Pakistan. Ma poiché il Bangladesh attuale era una propaggine del Pakistan a oriente, dal quale si è affrancato con la lotta d’indipendenza nel 1971, vediamo come tra Islamabad e Dacca le differenze, a parte la generica identità sunnita, sono maggiori delle analogie.
Un Bangladesh instabile è stato, almeno nell’ultimo decennio, un cruccio per il Dipartimento di Stato americano, molto attento alle dinamiche interne di un paese relativamente piccolo per dimensioni geografiche ma che demograficamente è il 7° più popolato al mondo.
Le principali fazioni politiche sono da tempo avversarie irriducibili e se il Partito che fu protagonista della lotta per l’autonomia, l’Awami League, rimane laico, e il BNP (Bangladesh National party) non ha disdegnato in passato l’appoggio del partito islamico radicale – lo Jamaat-e- Islami, apertamente sostenitore di una legge confessionale coranica come legge di diritto civile.
Ecco quindi che il rischio di una talebanizzazione del paese è da sempre reale, o almeno sin da quando Osama bin Laden (che aveva guardie del corpo bengalesi) destinava ingenti fondi al consolidamento dell’organizzazione filotalebana (oggi diremmo filo- Daesh?) del Bangladesh Movement. Questo spiega in parte l’aumento esponenziale durante l’ultimo lustro, da 1.400 a 6.500, delle madrasse (dati in difetto) dove oltre 90mila mullah insegnano a quasi 2 milioni di studenti. Non possiamo quindi sapere se Isis sia oggi una presenza infiltrata nel tessuto nazionale, ma ricordiamo ad esempio che una puntuale relazione del South Asia Terrorism Portal sottolinea come durante l’interregno che va dalla fine dell’era Bin Laden all’ascesa del sedicente Califfato, diversi gruppi terroristici islamici “transnazionali” si siano stanziati in Bangladesh. Qui hanno promosso alleanze con diverse organizzazioni integraliste del paese, e costruito, tra l’altro, almeno sei campi di addestramento nella pericolosa regione delle Chittagong Hill Tracts, al confine birmano.
Il governo centrale di Dacca non può essere sospettato di tenerezza nei confronti delle infiltrazioni islamiste nelle istituzioni. Quando nel 2006 alte gerarchie militari furono giudicate colpevoli di collusione con il gruppo estremista islamico JMB (Jamaat-ul Mujahideen Bangladesh), furono comminate condanne a morte sia tra i leader jihadisti sia tra i militari.
Sul fronte economico i numeri del paese sono molto cresciuti nel contesto regionale e non solo; tuttavia è anche vero che la Banca Mondiale ha salvato ripetutamente il Bangladesh dalla bancarotta irreversibile con immissione costante di dollari. Un quadro insomma fatto di luci e ombre.
Il Bangladesh cerca inoltre di fare la sua parte, remunerata certo, mettendo a disposizione dell’ONU il primo contingente di caschi blu al mondo (è una vocazione regionale, il peacekeeping, con India e Pakistan anch’esse tra le “top 5”). Ma nell’attuale contesto di incertezza interna e di dipendenza economica dall’esterno, l’opinione pubblica appare sempre più divisa tra l’alleanza con la vicina India, la potenza democratica e induista che nel 1971 ha offerto un contributo determinante all’indipendenza del paese, o un percorso di piccola nazione islamica più simile al travagliato nemico di ieri e forse anche di oggi, il Pakistan.
Sospetti di proselitismo religioso, burocrazie oscure e dietrologie improbabili, ma anche l’evoluzione magmatica del potenziale franchising dello Stato Islamico fanno del Bangladesh una galassia che non evolve in linea retta, ma secondo un destino che procede nella logica concreta e a volte spietata del giorno per giorno, lontanissima da quella definizione di “paese in via di sviluppo” che ormai non significa più nulla.
Occorre quindi attendere l’evoluzione delle indagini sui fatti sanguinosi di inizio luglio, e guardare in faccia una scomoda realtà: se la matrice della strage di Dacca fosse Daesh, la testa del mostro non è laggiù dove il Gange incontra il Brahmaputra, ma come sappiamo tutti nel cuore del medioriente siriano. Cioè in un luogo dove per ora la volontà militare e diplomatica delle maggiori potenze di risolvere il problema sembra ancora troppo vaga.