La sua candidatura alla guida della Commissione europea era nata fuori dall’emiciclo di Strasburgo, paracadutata un po’ a sorpresa dal parallelo summit dei capi di Stato e di governo, a fine giugno 2019. Ora, al netto di qualche fatica iniziale nella gestione coordinata della risposta alla pandemia che ha sferzato l’Europa – Ursula von der Leyen è tornata, il 27 maggio, davanti al Parlamento europeo che l’aveva incoronata di strettissima misura, nel momento che più d’ogni altro definisce la portata storica del suo mandato di presidente della Commissione. E lo ha fatto mettendo sul piatto degli Stati membri il bilancio pluriennale più ambizioso di sempre.
La deferenza democratica del gesto è stata notata – e rimarcata – dai parlamentari presenti in un’Aula logisticamente riadattata in ossequio alle disposizioni sul distanziamento fisico. La segretaria di Stato croata per gli Affari europei, in rappresentanza della presidenza di turno del Consiglio, avrà il compito di prendere tempo nell’attesa che le delegazioni nazionali definiscano le proprie posizioni in vista della discussione al Consiglio europeo tra i capi di Stato e di governo il 19 giugno. Un’operazione che si annuncia tutt’altro che semplice.
Il pacchetto per la ripresa dell’Europa post-pandemia proposto da von der Leyen si compone, come annunciato, di due gambe: la prima è un rinnovato Quadro finanziario pluriennale (Multiannual Financial Framework, MFF) per il settennio 2021-2027 del valore di 1,1 mila miliardi di euro – si tratta del bilancio dell’Unione, che si attesta su un ordine di grandezza in linea con il precedente. La seconda è il piano indirizzato agli Stati membri e ai comparti più colpiti dalla crisi, il “Next Generation EU”, un nuovo fondo di 750 miliardi di euro – che la Commissione, forte di un solido rating, prenderà in prestito sui mercati finanziari, attraverso l’emissione di debito comune, e ripagherà tra il 2028 e il 2058 aumentando risorse proprie anche attraverso la possibile introduzione di una digital tax e di una carbon tax. Di questi 750 miliardi, 500 saranno erogati come sussidi a fondo perduto e 250 sotto forma di prestiti; andranno a sostenere gli Stati membri e gli operatori economici privati e prevedranno un focus sulla predisposizione di una strategia sanitaria europea.
Sommati, i due provvedimenti ammontano a 1,85 mila miliardi, e confermano il focus della Commissione sulle due priorità cardine del mandato: transizione verde e digitale.
La palla passa adesso nella metà campo degli Stati membri: da Trattato, sono loro che, riuniti nel Consiglio, adottano all’unanimità l’MFF secondo una procedura legislativa speciale, in cui si prevede solo la previa approvazione del testo in blocco da parte del Parlamento europeo. Il prossimo appuntamento da tenere d’occhio per sondare gli umori politici dei governi è il proprio il summit del 18-19 giugno, il tradizionale Consiglio europeo estivo. Potrebbe essere il primo a svolgersi in presenza dei leader dall’inizio della pandemia. Del resto, come suggeriscono gli osservatorio più attenti, un’intesa di questa portata non può trovarsi dietro uno schermo, ma al termine di un negoziato tradizionale, fatto di lunghe ore di trattative e, soprattutto, di confronti bilaterali e alleanze di corridoio. Il broker da osservare, ancora una volta e per varie ragioni, è Angela Merkel.
Con il pacchetto von der Leyen, del resto, la Commissione ha fatto suo il piano di 500 miliardi di sussidi per finanziare la ripresa che la cancelliera Merkel e il presidente francese Emmanuel Macron avevano presentato durante una videoconferenza stampa congiunta il 18 maggio scorso. Non certo la più protocollare delle sortite, quella di Parigi e Berlino, che avevano giocato d’anticipo sulla proposta della Commissione, ma che ha avuto tre dirette conseguenze: coprire le spalle di von der Leyen, far parlare di un “Hamilton moment” – con riferimento al prevalere, negli Stati Uniti del 1790, della visione federalista di Alexander Hamilton su quella confederale – e di gettare allo scoperto – come se ve ne fosse bisogno – il fronte che si oppone al colpo di reni finanziario dell’UE.
Fronte che è rimasto orfano di Merkel, tradizionale madrina di miti consigli e ambizioni smorzate, che – con un avvitamento carpiato mentre la sua carriera politica volge al vespro – si è messa alla testa di un ritrovato protagonismo della Germania nel dibattito sul futuro dell’Unione. La sua proposta per finanziare la ripresa europea ha un sostegno trasversale nel Paese (con picchi fra gli elettori dei Verdi, la forza politica che più ha guadagnato consensi negli ultimi appuntamenti elettorali). E se la sensazione che un quinto, storico mandato per la cancelliera possa essere all’orizzonte non fosse solo del wishful thinking? Di certo, toccherà a Berlino officiare la difficile cerimonia che porterà a un accordo sul pacchetto: il 1° luglio comincia infatti la presidenza di turno tedesca del Consiglio dell’Unione. Benché qualche voce solleciti ancora la necessità di predisporre un budget emergenziale per il 2021 in caso di mancato accordo sul bilancio 2021-2027 entro dicembre di quest’anno, pochi credono all’eventualità che la Germania non riesca a portare a casa il risultato.
Che siano frugali (come la narrativa bruxellese li etichetta) o egoisti (come il dibattito politico ha preso a definirli), ci sono tuttavia quattro riluttanti esecutivi da convincere sulla stazza del budget e sul rapporto fra sussidi e prestiti: Austria, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi. Rappresentano poco più di 42 milioni di europei, meno del 10% della popolazione dell’Unione. La Finlandia, data inizialmente fra gli indiziati, si è presto tirata fuori dal club.
“Non è democrazia questa”. Il loro scetticismo rispetto all’ambizioso piano della Commissione è stato oggetto di reiterati attacchi frontali da parte dei leader dei principali gruppi parlamentari che in Aula hanno tributato il loro sostegno a von der Leyen: dai popolari del PPE ai socialdemocratici dell’S&D, dai liberali-centristi di Renew Europe ai Verdi, che nelle dinamiche politiche UE sono sempre con un piede dentro e uno fuori. “Bisogna passare a un voto a maggioranza nel Consiglio” per il via libera all’MFF, l’eco proveniente da qualche banco progressista.
Una possibilità che effettivamente è nei Trattati: ma per autorizzare il Consiglio ad adottare un bilancio pluriennale a maggioranza qualificata occorre una deliberazione politica all’unanimità da parte dei capi di Stato e di governo riuniti nel Consiglio europeo. Un gioco dell’oca con ritorno alla casella di partenza, insomma. Ecco che il tema si fa politico: e non è solo una questione di dialettica fra Europa degli Stati ed Europa delle istituzioni, ma un’interlocuzione all’interno dei gruppi parlamentari, ufficialmente sette, che all’avvio della nuova legislatura, nonostante le aspettative e le promesse di strenue battaglie dopo il sacrificio del sistema dello Spitzenkandidat nella selezione della nuova guida della Commissione, si sono ritrovate perno di un Parlamento frammentato e anello debole del gioco politico-istituzionale UE.
Eppure, i governi dei quattro Paesi che frenano il piano von der Leyen sono rappresentativi di tutta la grande coalizione parlamentare che regge le sorti politiche della Commissione. Popolari al timone di un’inedita coalizione con i Verdi in Austria; liberali nei Paesi Bassi a capo anch’essi di un’ampia maggioranza; socialdemocratici alla guida a Copenaghen e Stoccolma.
La dotazione di 1,85 mila miliardi si aggiunge ai fondi di coesione già mobilitati per il 2020 e al pacchetto di 540 miliardi adottato nelle scorse settimane per predisporre misure immediate di risposta alla spirale socio-economica innescata dalla pandemia: dalla nuova linea di credito del Meccanismo europeo di stabilità (MES, 240 miliardi), allo schema SURE di sostegno ai lavoratori (100 miliardi), passando per il programma di prestiti della Banca europea per gli investimenti (BEI, 200 miliardi). Sommati al piano di acquisto di titoli pubblici e privati pari a 750 miliardi di euro annunciato due mesi fa dalla Banca centrale europea (BCE), le cifre diventano davvero rivoluzionare per l’assetto dell’UE.
Il consenso che ha riscosso la proposta von der Leyen in Parlamento e fra i maggiori Stati membri, però, è stato accompagnato anche da qualche malumore. Perché è pur vero che il “Next Generation EU” – agendo da Recovery Fund – stanzia finanziamenti del tutto nuovi e destinati a sostenere la ripresa nei primi anni del prossimo ciclo di programmazione, ma è anche vero che, calcolatrice alla mano, l’MFF – per così dire – “ordinario” scende al di sotto del livello della precedente proposta di bilancio avanzata nel maggio 2018 e sulla base della quale si era svolto un complesso negoziato “business as usual” fino ad oggi. Il nuovo MFF prende infatti come riferimento la bozza, giudicata da più parti priva di ambizione, predisposta dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel in occasione dell’ultimo Vertice di febbraio – ancora in era pre-coronavirus – e ne ritocca il totale da 1,095 a 1,1 mila miliardi.
Qualche variazione al ribasso, rispetto al maggio di due anni fa (quando la proposta toccava i 1,13 mila miliardi) riguarda però programmi che alla “next generation” dovrebbero guardare per definizione – come Spazio o Erasmus+. D’altra parte si registra un incremento importante sul fronte degli strumenti finanziari disponibili per sostenere gli investimenti nell’Unione (con un InvestEU raddoppiato) e uno discreto su Horizon Europe, a sostegno di ricerca e sviluppo – comunque bollato ancora come insufficiente dal settore.
Piccole battaglie aperte all’interno di una guerra senza quartiere, che è adesso solo all’inizio. Al netto di qualche intervento cosmetico, la proposta della Commissione ha dalla sua l’appoggio del Parlamento – che non si metterà di traverso di fronte a un piano che, nel complesso, stanzia 430 miliardi in più della sua più recente richiesta -. Fare in modo che gli Stati membri buttino il cuore oltre l’ostacolo e si rendano partecipi di una nuova primavera europea è la sfida che definirà il futuro di Ursula von der Leyen e il lascito di Angela Merkel. Se l’Europa che allarga il suo bilancio e la sua forza economica continuerà a farlo alla tedesca, forse i “frugali” resteranno all’ascolto.