L’arma russa dell’energia e l’opzione negoziale

La Russia non avanza nel Donbass, e nel Sud è costretta a ritirarsi dalla riva destra del Dnepr. Se deve procurarsi armi in Iran e Nord-Corea vuol dire che sta svuotando i suoi arsenali. Ha difficoltà a ricostituire i ranghi dell’esercito, tant’è vero che deve andare a cercare reclute fra i popoli non slavi della Siberia e del Caucaso e nelle carceri. Minacciando il ricorso all’arma nucleare dimostra che prevede di potersi trovare con le spalle al muro; in realtà non ha l’opzione nucleare perché perderebbe l’appoggio della Cina e dell’India. Sin d’ora subisce le loro critiche, così come contestazioni all’interno.

Questa presentazione della situazione (“narrative“, direbbero gli anglo-sassoni) contribuisce a tenere alto il morale degli ucraini, civili e militari, ed è un efficace argomento per convincere europei e americani a tenere duro e continuare as long as it takes – come recita il comunicato del G7 dell’11 ottobre – le forniture di armi. Se ne dovrebbe anche desumere che Mosca ha interesse a negoziare e che quindi è il momento propizio per proporre una mediazione. Ma è proprio così?

 

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Vladimir Putin può credibilmente relativizzare i suddetti fattori di debolezza. La controffensiva ucraina difficilmente sfonderà la linea difensiva in costruzione. A primavera le nuove reclute saranno addestrate e le industrie belliche avranno sfornato grandi quantità di missili e munizioni; gli oltre 700 carri armati persi nelle battaglie sono solo un quarto della disponibilità pre-bellica. La minaccia nucleare ha già dimostrato la propria efficacia alimentando paure e dubbi sull’opportunità di continuare ad armare l’Ucraina nelle opinioni pubbliche europee. È discutibile che sia un’arma spuntata in quanto condannerebbe chi la usa all’isolamento internazionale: essendo inevitabile una reazione proporzionata degli Stati Uniti, nucleare o convenzionale, la condanna morale verrebbe equamente ripartita.

La Cina può nutrire riserve sulla guerra (come ne nutrivano Francia e Germania nel 2003 per l’aggressione all’Iraq senza per questo mettere in discussione il legame atlantico), ma non al punto da togliere il suo appoggio alla Russia: i due paesi sono solidali sentendosi entrambi messi sotto pressione dalla politica di containment degli Stati Uniti. Il dissenso pacifista all’interno è tenuto sotto controllo dal Cremlino con efficaci misure di polizia; se contestazione c’è nelle alte sfere è quella della fazione più bellicista. Inoltre è evidente la cautela del governo tedesco nel modulare gli aiuti all’Ucraina, e negli Stati Uniti, l’orientamento espresso dal capo della neo-maggioranza repubblicana alla Camera, Kevin McCarthy, va nella stessa direzione.

A questa contro-narrativa del bicchiere mezzo pieno si aggiunge la fiducia nell’arma dell’energia, che è duplice. Da un lato la sistematica distruzione delle infrastrutture elettriche dell’Ucraina per piegare la resistenza della popolazione facendole passare un inverno terribile. Dall’altro il rubinetto del gas per esercitare pressioni sui paesi europei, imponendo loro tre ordini si sacrifici: penuria di gas, alti prezzi, e chiusura di aziende.

Si è cercato di tranquillizzare le opinioni pubbliche europee sottolineando che le forniture di metano russo sono già scese dal 40% al 9% del fabbisogno, e che in vista dell’inverno i depositi di Germania, Francia e Italia sono stati riempiti anzitempo al 90%. Ma quel 9% è comunque un quantitativo non facilmente sostituibile nel breve periodo da altre fonti (anche perché i rigassificatori acquistabili sono pochi, oltre che molto costosi); alcuni paesi centro-europei hanno ancora una forte dipendenza dal gas russo: l’Austria è scesa dal 90% al 50%. Il 90% dei depositi corrisponde a circa un quarto del fabbisogno annuo di quei tre grandi paesi, dunque  meno di metà del consumo di un inverno. Vari paesi membri dell’UE non dispongono affatto di depositi. Supponendo che nei prossimi 2-3 mesi i governi europei siano restii ad imporre drastiche restrizioni, nei mesi successivi saremo pericolosamente esposti a un eventuale ricatto energetico; e il gas a 100€ come adesso sarà un miraggio. Al punto che la coesione atlantica potrebbe incrinarsi.

 

Considerando questa prospettiva, c’è da augurarsi che – preferibilmente dopo qualche ulteriore successo militare ucraino che ridimensioni le ambizioni territoriali di Mosca – si avvii un dialogo fra Russia e Stati Uniti. Cosa ben diversa sarebbe una pressione sul governo di Kiev perché si sieda al tavolo dei negoziati con l’invasore: assomiglierebbe ad una resa. La Casa Bianca appare ancora molto scettica sull’utilità di un dialogo, e infatti il gruppo di deputati democratici che lo aveva propugnato è stato costretto a fare marcia indietro. Ma questa posizione potrebbe evolversi nei prossimi mesi.

In quei colloqui potrebbero essere prospettati ai russi i vantaggi della ricostruzione dell’ordine internazionale su basi mutuamente accettabili; e l’intenzione, in caso di continuazione della guerra, di fornire  armi più potenti e sofisticate all’Ucraina. In secondo luogo si dovranno fissare i requisiti minimi per un accordo di armistizio, che verrebbe poi precisato e firmato dai due belligeranti.

Vale la pena tentare, anche se le probabilità di riuscita sono scarse, condizionate come sono dalla questione territoriale. Da parte americana la posizione negoziale di partenza non potrà che essere quella ribadita nelle suddette conclusioni del G7: pieno ripristino dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Ma difficilmente si potrà evitare che le trattative portino ad una cristallizzazione dell’occupazione di una parte delle quattro regioni orientali e meridionali, senza tuttavia riconoscere l’annessione. Non sarà purtroppo una “pace giusta”. Si dovrà almeno cercare di ottenere adeguate garanzie per la popolazione: diritto al rientro (anche dalla Federazione Russa per chi è stato deportato) o all’emigrazione; liberazione di tutti i prigionieri e detenuti politici; ricostruzione; libere elezioni; presenza di osservatori delle Nazioni Unite o dell’OSCE.

Il nodo gordiano sarà l’impegno a tenere nuovi referendum con la partecipazione di sfollati e rifugiati e sotto supervisione internazionale. Nella migliore delle ipotesi Mosca accetterà questa clausola con la riserva mentale di non attuarla, e quindi l’unico vantaggio che Kiev ne ricaverà nel breve periodo sarà di metter fine alla guerra senza rinunciare formalmente ai territori occupati, cioè salvando la faccia.

Nel lungo periodo non va scartata la prospettiva che quell’impegno venga rispettato da una Russia diversa, cioè con una nuova dirigenza, che riscopra l’interesse alla collaborazione con l’Occidente. Fermo restando che lo scopo del sostegno all’Ucraina non può essere il regime change, la fine della nuova guerra fredda e il pieno ristabilimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina è impensabile fino a quando Putin lascerà il potere e l’attuale linea di fiero antagonismo verso l’Occidente verrà abbandonata.

 

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Una prospettiva che nelle attuali circostanze ha il sapore di una utopia. Ma così era la riunificazione tedesca o l’indipendenza dei paesi dell’Europa centro-orientale all’epoca del Vertice CSCE di Helsinki del 1975.

 

 

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