L’approccio tedesco al rilancio dell’economia

Mentre l’Italia cerca di delineare il programma di rilancio dell’economia, e da più parti si teme che dalle grandi assise annunciate esca un libro dei sogni tale da soddisfare tutte le categorie, a parole, utili riflessioni possono venire dalle decisioni e dal dibattito cui assistiamo nei paesi vicini.

Anche in Germania, benché non ci sia stato uno shutdown obbligatorio dell’industria, l’economia ha subito un duro colpo e si prevede che per rianimarla ci vogliano centinaia di miliardi: si parla al momento di circa 400 (e con le garanzie statali si arriverebbe a 1300; il PIL tedesco ammonta a  3435 miliardi).

Angela Merkel, pronta a lanciare un piano straordinario per risollevare l’economia tedesca

 

Fatte le debite proporzioni, l’Italia dovrebbe preventivare 200 miliardi. La Germania dal 2015 ha avuto bilanci in attivo ed è andata riducendo il suo indebitamento fino alla soglia di Maastricht (60% del PIL), ed è quindi in grado di mettere in conto per il 2020 un deficit significativo (7%), con l’obiettivo di farlo rientrare nel giro di pochi anni.

Secondo quali criteri pensano di spendere queste somme? Intanto è stata subito accantonata l’idea dello “helicopter money”, cioè di sussidi a pioggia pur di resuscitare in fretta la domanda e a costo di beneficare anche chi non ha sofferto o si è arricchito: un modello che può andar bene per un paese come l’America di Trump, dove disuguaglianze e deficit non sono percepiti come un problema. In Europa, come propugnato da Thomas Piketty, sembra prevalere – almeno in base alle dichiarazioni d’intenti e di principio – l’idea che i soldi della ripresa debbano servire non per ripristinare l’economia di ieri con i suoi difetti, ma per affrontare le trasformazioni già da tempo riconosciute come necessarie: in primo luogo attenuare le disuguaglianze e arrestare lo scivolamento verso la catastrofe ecologica.

Questa visione, condivisa a Berlino dall’SPD che fa parte della coalizione di governo, e dai Verdi che nei sondaggi sono il secondo partito con poco meno del 20%, non è però certo unanime. Per  la CDU la svolta verde è importante, ma non a costo di mettere in crisi grandi aziende, come quella automobilistica, dalla quale dipendono 800mila posti di lavoro, e con l’indotto alcuni milioni. La pensano così anche i sindacati, che ora attaccano i socialdemocratici per essersi opposti agli incentivi per l’acquisto di auto a benzina o diesel.

Il mantenimento dei posti di lavoro, dunque, è l’obiettivo centrale tanto delle misure di emergenza quanto dei piani di rinascita economica. La cassa integrazione (Kurzarbeit) a 7 milioni di lavoratori tedeschi è vista non tanto come misura assistenziale ma piuttosto come un argine ai licenziamenti. Così come i sussidi a negozi e piccole aziende servono anzitutto ad evitare fallimenti, a dare tempo alla domanda di riprendere quota. Domanda che, dicevamo, va alimentata non da denaro facile bensì dalla fiducia. E la fiducia dipende dalle prospettive di mantenere il posto di lavoro o la posizione sul mercato. I sussidi alle aziende, in qualche caso anche alle grandi (Lufthansa dovrebbe ottenere 9 miliardi, compresi 3 come crediti) hanno anche una finalità secondaria: evitare che cadano in mano a hedge funds e investitori cinesi (in Italia ci preoccupiamo, non a torto, anche di non aprire la strada a scorribande di riciclatori).

Inevitabilmente in alcuni settori l’occupazione subirà tagli definitivi, determinati dal progresso tecnologico e quindi già prevedibili prima della crisi, oppure dovuti al cambiamento degli stili di vita e di lavoro prodotto dalla pandemia. Per sostituirli non si parla di “alta velocità” o altri faraonici progetti infrastrutturali, ma di “green new deal”, scuola, terzo settore, ri-localizzazioni.

Un termine che ricorre spesso, difficilmente traducibile in italiano, è “Standort”: letteralmente “il posto dove si sta”. Indica la competitività o attrattività del paese per gli investimenti, sia quelli dall’estero, sia quelli di capitali nazionali che altrimenti cercherebbero impieghi altrove. Il principale obiettivo della politica economica è l’ottimizzazione dello Standort, e quindi  dei fattori (Rahmenbedingungen) che lo condizionano: istruzione, formazione professionale, servizi, legislazione, tassazione etc.

Applicato all’Italia, questo paradigma metterebbe in risalto, oltre ai suddetti fattori, l’assoluta priorità da attribuire alla velocizzazione della giustizia e a una vera, radicale riforma della burocrazia, non nel senso di rinunciare ai controlli necessari ad impedire abusi e frodi, ma di eliminare inutili formalità.

Scelte di questo genere, come pure la sordina ai discorsi sulle “grandi opere” e “abbassare le tasse”, o su “i fiumi di soldi che non si sa come spendere”, aiuterebbero ad attenuare la diffidenza degli austriaci, olandesi e altri partner europei, e la loro determinazione a negoziare una riduzione della quota a fondo perduto del Recovery Fund.

La Cancelliera Merkel ha portato la Germania su posizioni più lungimiranti di quelle della media del suo elettorato, come aveva fatto nel 2015 per l’ondata di rifugiati. Ma non ci conviene take her for granted. Non è detto che il suo successore sarà di così larghe vedute. E lei stessa, se la politica italiana si mostrasse convinta di avere intascato il principio degli Eurobond, cioè di poter usare quel Fondo per ripianare i deficit pregressi, sarebbe sottoposta a forti pressioni perché tiri il freno a Bruxelles, dove dovranno essere approvati i vari programmi di spesa.

E la sentenza della Corte Costituzionale di Karlsruhe del 5 maggio che ha criticato pesantemente le massicce iniezioni di liquidità praticate dalla BCE sotto Mario Draghi, se non costituisce un ostacolo giuridico per Christine Lagarde e per la Commissione, è però stata una chiara messa in guardia all’indirizzo della Bundesbank, del Bundestag e del Governo tedesco.

 

 

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