L’America post-globale

La presidenza di Donald Trump è finita, ma gli ultimi quattro anni hanno impresso in molti campi una svolta importante alla politica americana, che determinerà la traiettoria degli Stati Uniti per gli anni a venire, con implicazioni significative per tutto il mondo occidentale.

Trump è stato figlio della crisi di un establishment che pensava di cavarsela nonostante gli effetti deleteri della globalizzazione su una grossa fetta della popolazione americana, oltre che di una politica estera fatta di interventi militari fallimentari e impopolari. Nel suo mandato alla Casa Bianca non si può dire che abbia raggiunto l’obiettivo di ricostruire la base industriale americana e di liberare gli Stati Uniti dai conflitti internazionali, ma ha inaugurato un nuovo approccio in entrambi i campi, segnando una rottura con le politiche precedenti e impostando la nuova realtà politica in cui si trova a operare Joe Biden, in molti casi in continuità sostanziale con il suo predecessore.

La necessità di una correzione di rotta era già evidente ben prima della pandemia iniziata nel 2020. Lo stesso Barack Obama fu eletto sull’onda di una reazione politica al crollo del sistema finanziario dominato dalla speculazione finanziaria, caratteristica essenziale di un periodo di politiche postindustriali messe in moto già dagli anni Settanta. Obama del resto aveva ben sfruttato l’opposizione popolare alle guerre dei neoconservatori, e la sfiducia verso chi nel mondo democratico li assecondava.

Il populismo, deflagrato con vari gradi di intensità in quasi tutto l’Occidente, è stata una reazione prevedibile, e democratica, a questi errori: la classe politica e finanziaria ha continuato a perseguire, finché ha potuto, gli interessi di pochi senza pagarne il prezzo, per poi affrontarne le conseguenze quando è arrivato un politico – o nel caso americano un immobiliarista e personaggio televisivo – ad affermare che “il re è nudo”, attingendo a una fonte profonda di malcontento tra la popolazione. Non occorre avere una soluzione approvata dagli esperti: per gli outsider è sufficiente denunciare i problemi con schiettezza, e approfittare dell’incapacità – e spesso dell’indisponibilità – dell’establishment a offrire una risposta efficace e credibile.

In seguito però è toccato a Trump cercare di mantenere le proprie promesse, tra l’altro con l’opposizione decisa di buona parte delle istituzioni su molti punti. Chiaramente impreparato al ruolo, il quarantacinquesimo presidente ha fatto di certo tanti errori, mostrandosi intollerante a livello sociale e personale, irrispettoso delle convenzioni a livello istituzionale e non all’altezza delle sfide come la pandemia e le proteste contro l’ingiustizia razziale.

La sua personalità scontrosa e la convinzione di essere il bersaglio di una campagna coordinata per ostacolarlo in tutti i modi – spesso non senza ragione, va detto – lo ha portato infine agli eccessi visti nelle settimane dopo il voto del 3 novembre 2020: l’incapacità di accettare la sconfitta, fino alla delegittimazione dell’elezione con le conseguenze drammatiche del 6 gennaio 2021. Per molti, l’assalto al Campidoglio è da considerare l’evento che definisce l’intero mandato, ma le correnti profonde che hanno portato Trump alla Casa Bianca non sono certamente scomparse. Nonostante i difetti fin troppo evidenti del personaggio, è su questi temi che occorre valutare la sua presidenza. La questione centrale è quanti progressi abbia fatto verso gli obiettivi prefissati, e quindi capire il contesto in cui Biden cercherà di “guarire” la nazione e creare un nuovo senso di unità.

Donald Trump

 

GRANDI TENSIONI MA NESSUNA GUERRA. In politica estera, Trump può vantare un grande successo: è il primo presidente in quarant’anni a non iniziare una nuova guerra. È una distinzione di non poco conto, per il ruolo americano nel mondo e anche per rispondere alle preferenze degli elettori. Trump ha adottato una posizione aggressiva in alcuni casi, ma ha effettivamente provato a riportare le truppe americane a casa evitando di invischiarsi in conflitti all’estero, oltre a cercare nuove aree di cooperazione con la Russia. Un tentativo che tuttavia è riuscito solo in modo limitato a causa delle pressioni contrarie dentro e fuori l’amministrazione.

Nel suo ultimo anno l’amministrazione Trump ha anche facilitato gli Accordi di Abramo, contribuendo alla creazione di una nuova realtà nel Medio Oriente, un’accelerazione del processo già in atto verso un’alleanza aperta tra Israele e i paesi arabi sunniti. Questi accordi avranno degli effetti importanti per le realtà coinvolte, aprendo nuove opportunità. Dall’altra parte cambiano fortemente i calcoli in merito alla questione palestinese, e va rimarcato che l’intero processo è guidato dalla volontà di costruire un fronte unito contro l’Iran, respingendo l’approccio diplomatico perseguito dall’amministrazione Obama.

Anche in questo caso, però, il fine ultimo di Trump era di riportare Teheran al tavolo dei negoziati, chiedendo nuove concessioni. L’ironia è che per quanto il tono di Biden sarà diverso, gli obiettivi non sono così lontani: convincere l’Iran a dare garanzie sui missili balistici e limitare il sostegno ai suoi alleati nella regione.

Sul ritiro dai conflitti si trovano meno differenze tra l’amministrazione precedente e quella attuale. Durante gli anni di Obama, Biden si era mostrato cauto rispetto all’intervento in Libia, come anche all’aumento delle truppe in Afghanistan. Ci sono sì numerosi veterani di amministrazioni democratiche precedenti che vanno annoverati tra gli interventisti di sinistra, ma alcuni – come il neosegretario di Stato Antony Blinken – sostengono di aver imparato dagli errori del passato; in più, l’insistenza su questo punto tra i politici più conservatori, a destra, e quelli più progressisti, a sinistra, dimostra che ignorare l’opposizione popolare alle guerre è ora più rischioso.

Il dossier su cui Trump ha impresso il cambiamento più grosso è quello della Cina. È indubbio che ci sia stato uno spostamento importante e trasversale nelle istituzioni americane: non si vede più la Cina come un paese in via di apertura democratica sulla scia della crescita economica, con la speranza che diventi presto un “attore responsabile” nel sistema internazionale. Pechino è considerata un concorrente strategico, che mira a diventare dominante in settori economici e tecnologici fondamentali, mentre continua a espandere la propria zona di influenza e riconquistare un ruolo di primo piano mondiale.

Gli strumenti utilizzati da Trump sono stati rozzi, a volte con danni collaterali anche all’interno degli Stati Uniti, ma la disponibilità a mettere pressioni forti sulla Cina, costringendola a trattare, ha cambiato i termini della relazione, portando Pechino a fare almeno alcune concessioni, principalmente in merito all’apertura di settori economici alla concorrenza estera. L’amministrazione uscente è anche riuscita a evitare scontri militari diretti, ma su questo tema le tensioni sono cresciute nell’ultimo anno, e ora vige una situazione di incertezza in merito alle intenzioni cinesi verso Taiwan, per esempio. Con Biden, la politica americana adotterà senz’altro un tono più multilaterale, e punterà sul rafforzamento delle alleanze nell’area asiatica; anche questo, però, viene da lontano: dal “pivot to Asia” di Obama, alla ripresa del dialogo di sicurezza del Quad (la Quadrilateral Security Alliance tra Stati Uniti, Giappone, India e Australia) dal 2017 in poi.

Navi della Marina USA transitano al largo delle Filippine

 

IL PATRIOTTISMO ECONOMICO BIPARTISAN. Il campo di battaglia essenziale dell’amministrazione Trump è stata l’economia, con la Cina come in altri ambiti. L’obiettivo principale è sempre stato quello di fermare il declino industriale americano, per motivi prima interni, a causa degli effetti fortemente deleteri sulla classe media delle politiche di delocalizzazione e dei bassi costi, e poi strategici, perché la deriva postindustriale ha comportato una perdita di peso reale, aprendo nuovi spazi per i concorrenti.

A guardare i numeri possiamo registrare qualche progresso su questo tema durante gli anni di Trump – un inizio di crescita dei salari in termini reali, e un principio di reshoring e di riorganizzazione delle filiere – ma si rimane lontani dal raggiungimento degli obiettivi prefissati. Tuttavia, i termini del dibattito sono cambiati in modo drastico. Non si sentono più i difensori del modello neoliberista, gli apostoli dell’efficienza del mercato globalizzato; ormai è stata sdoganata l’idea di fare politica industriale, grazie a questa combinazione di pressioni popolari espresse lungo l’intero spettro politico, e al nuovo contesto di sfida strategica con il gigante asiatico.

A sentire i piani economici di candidati come Bernie Sanders e Elizabeth Warren durante le primarie democratiche, si rimaneva colpiti dalla similitudine con i propositi trumpiani in termini di “patriottismo economico”. E dopo le primarie si è aggiunto anche Joe Biden a parlare apertamente della necessità di promuovere il lavoro e la produzione americana, oggetto tra l’altro di una delle sue prime azioni esecutive. Il protezionismo, una parolaccia prima di Trump, ora è diventato un imperativo in alcuni settori.

Questo cambiamento ha ricevuto una spinta ulteriore dalla pandemia del Covid-19: si è riconosciuta la necessità urgente di garantire la produzione di certi prodotti come i dispositivi medici, e comunque la fragilità delle catene di valore nei tempi della globalizzazione. Anche su questo punto troviamo iniziative bipartisan nella politica americana, nell’ottica di affermare il primato della sicurezza nazionale estesa a settori che vanno ben oltre quello militare. È in atto una discussione vivace e urgente sulla necessità di grandi investimenti nelle tecnologie digitali, in particolare per non rimanere indietro nella competizione con la Cina. Settori come le telecomunicazioni e l’intelligenza artificiale diventeranno un anello di congiunzione fondamentale tra economia interna e politica estera, spingendo nuovi investimenti e iniziative internazionali come la Democratic Technology Alliance.

La politica commerciale e fiscale di Donald Trump mirava a favorire le imprese americane, con luci e ombre. Il più grande successo a livello macro è stato il nuovo accordo commerciale per sostituire il NAFTA, lo US-Mexico-Canada Agreement. Qui si è data prova di una nuova direzione, puntando ad aumentare i salari dei lavoratori e a disincentivare la delocalizzazione. Va ricordato che la versione finale di questo accordo fu stilato insieme ai democratici, e con l’appoggio entusiasta dei grandi sindacati americani. Tra l’altro Katherine Tai, una degli esperti del tema che ha contribuito a rafforzare le previsioni sul lavoro nel nuovo accordo, è stata designata da Biden come rappresentante per il Commercio nella nuova amministrazione.

La novità maggiore in campo economico è avvenuta in risposta alla pandemia: il Congresso ha stanziato oltre il 18% del pil nel solo 2020 per affrontare l’emergenza, con il sostegno quasi unanime tra i due schieramenti politici. Trump, che su temi come le tasse e la regolamentazione ha seguito invece una linea repubblicana tradizionale, si è smarcato qui, chiedendo ancora più soldi da destinare a pagamenti diretti ai cittadini.

L’elemento più importante, però, è stato il cambiamento nell’utilizzo della banca centrale: non solo la Fed ha finanziato buona parte del nuovo debito pubblico a costo zero, ma ha cominciato, per la prima volta, a prestare direttamente all’economia reale, sotto la direzione del dipartimento del Tesoro. La rilevanza di questo cambiamento non è sfuggita ai neoliberisti, che hanno fatto un debole tentativo di contrastarlo a dicembre: se si considera il combinato disposto dell’abbandono delle preoccupazioni sul debito pubblico, oggetto anche di un vivace dibattito nel mondo accademico, e l’utilizzo degli strumenti finanziari pubblici per fare politica industriale, diventa evidente la possibilità di un svolta a lungo termine nella politica economica statunitense.

Un locale chiuso a Chicago

 

Questa transizione è stata spinta dalla pandemia, ma resa possibile dalla rottura con le politiche della globalizzazione operata da Trump durante il suo mandato; una rottura che nei suoi punti essenziali trova riflessi e sostegno da tutti gli angoli della politica americana: dai democratici progressisti che rivendicano più stato sociale ai repubblicani conservatori che puntano a un “capitalismo del bene comune” che permetta loro di vincere la sfida per il sostegno della classe lavoratrice; finanche agli ambienti istituzionali che capiscono l’urgenza di ricostruire la solidità del paese di fronte alle sfide globali. Le resistenze al cambiamento ci sono, e comunque ci vorrà molto tempo per ricomporre le divisioni sociali e politiche, ma il contesto è mutato: la realtà ha costretto il paese a cominciare a risanare gli errori del passato, con un nuovo corso che si può definire “post-globale”.

 

 

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