Lo scorso 4 febbraio veniva firmato, a Auckland in Nuova Zelanda, il trattato istitutivo della Trans-Pacific Partnership (TPP) tra 12 paesi dell’Estremo Oriente, dell’Oceania e delle Americhe – compresi i tre membri del NAFTA (USA, Canada, Messico) ma anche Cile e Perù. Negli stessi giorni il presidente colombiano Manuel Santos, ricevuto alla Casa Bianca da Barack Obama, incassava elogi per la stabilizzazione politica, la crescita economica del paese e l’andamento dei negoziati con i guerriglieri delle FARC, uniti a un sostanzioso aumento del pacchetto di aiuti economici statunitensi previsti dal “Plan Colombia” (lanciato nel 1999 e ora ribattezzato Peace/Paz Colombia).
Questa coincidenza temporale rivela una tendenza in atto ormai da alcuni anni nel continente sud-americano e nei rapporti tra questo e il contesto emisferico e globale. Sia l’incontro bilaterale di Washington, sia la “storica” firma del trattato commerciale transpacifico (sebbene tuttora da ratificare) sono infatti tra gli episodi più recenti di una divaricazione dell’America meridionale tra due blocchi: da una parte quello “neoliberale-liberoscambista” dell’Alleanza del Pacifico (AP) guidato dalla Colombia e comprendente Perù e Cile, oltre al Messico; dall’altra il blocco “statalista-protezionista” incentrato sui paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Uruguay, Venezuela, Paraguay). Il secondo raggruppamento sta vivendo una fase politico-economica molto difficile (a partire dal Brasile, grande speranza degli ultimi anni) e inoltre è alle prese con il declino delle tendenze “bolivariane”, alimentate dal presidente venezuelano Hugo Chávez fino alla sua morte nel 2013. Una divaricazione che sembra aggravarsi e che è leggibile solo in parte all’interno del quadro, spesso frammentario e non di rado inconcludente, dell’integrazione latino-americana.
Nell’ultimo faccia a faccia tra Santos e Obama si è andati oltre l’esibita stima reciproca e la cordialità tra alumni dell’università di Harvard. Il primo ha annunciato l’incremento da 300 a 450 milioni di dollari degli aiuti del Plan Colombia, il massiccio e controverso programma di aiuti economici e militari che per quasi vent’anni è stato il cardine della “guerra” ai cartelli della droga e alla guerriglia. E il secondo ha espresso apprezzamento per la svolta statunitense su Cuba a nome di tutti i popoli “a Sud del Rio Grande.” Da qualche anno il paese di Santos si sta affermando, con il Messico, come l’interlocutore più affidabile degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale, oltre che interprete tra i più fedeli del Washington consensus in tema di politiche economiche. Ma, a differenza del Messico, la Colombia sembra essersi affrancata dall’ipoteca delle narcomafie, cosa che contribuisce ad accreditarla come attore regionale in grado di giocare un ruolo su diversi tavoli.
In primo luogo l’esportazione di know-how nel settore della sicurezza (formazione di personale nella lotta al narcotraffico e alla guerriglia) verso un numero crescente di paesi latinoamericani, dal Messico al Perù, ha fatto di Bogotà un modello regionale, oltre ad aver permesso agli Stati Uniti di limitare il proprio impegno in una regione ritenuta problematica, ma non strategica. In secondo luogo l’adozione di riforme interne sui servizi finanziari, l’attrazione di investimenti esteri e l’entrata in vigore nel 2012 del CPTA (United States-Colombia Trade Promotion Agreement) hanno rafforzato il profilo della Colombia in una fase in cui si registra una ripresa dell’attenzione statunitense verso l’emisfero meridionale. Questo accordo di libero scambio ha una storia contoversa, visto che fu siglato già nel 2006, ma ratificato dal Congresso degli Stati Uniti solo cinque anni dopo a causa di forti resistenze americane dovute alle violazioni dei diritti umani nel Paese latinoamericano.
Questo ritrovato prestigio regionale colombiano si era concretizzato nel 2011 con il forte impulso dato alla creazione dell’Alleanza del Pacifico (AP). Nata con l’obiettivo di favorire la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone e stimolare la crescita e la competitività dei paesi membri, è stata salutata assai positivamente da molti osservatori internazionali che le hanno assegnato un ruolo politico di portabandiera del libero mercato e di un regionalismo aperto alla globalizzazione, contrapposto alle chiusure del Mercosur e alle ambizioni egemoniche del Brasile. Così è cresciuta l’importanza di un’organizzazione nata con finalità esclusivamente economiche e che rappresenta il 35% del prodotto interno lordo del Sud America, ma la metà delle sue esportazioni (visto che i suoi membri sono assai più orientati all’export rispetto alla media continentale). La AP è diventata così protagonista della partita che ha per oggetto un “continental divide” che va oltre la dimensione commerciale e finanziaria.
A questa partita se ne sovrappone un’altra, che rischia di allargare ulteriormente la spaccatura sudamericana. Perù e Cile sono, di nuovo con il Messico, tra i dodici firmatari della TransPacific Partnership (TPP), siglata lo scorso febbraio e in attesa di ratifica (entrerà in vigore con l’approvazione da parte dei dodici entro due anni dalla firma oppure con l’approvazione da parte dei paesi che rappresentino l’85% del PIL dei firmatari).
La Colombia non ne fa parte in quanto a differenza dei dodici soci fondatori non è membro dell’APEC (Asia Pacific Economic Cooperation), ma è considerata una candidata naturale all’ammissione nel prossimo futuro proprio in virtù della stabilizzazione interna e dell’attivismo con cui ha perseguito accordi commerciali bilaterali e multilaterali nell’ultimo decennio. E tutti i membri dell’AP hanno comunque già siglato trattati bilaterali con alcuni membri della TPP. La sovrapposizione tra dimensione emisferica e trans-pacifica è evidente, ma la previsione dell’impatto della TPP sui suoi membri latinoamericani è materia assai controversa. Secondo studi della Brookings Institution e della Banca Mondiale è prevedibile un incremento dell’export, in particolare del 10% per il Perù e del 5% per il Cile da qui al 2030. Ci sono però anche voci critiche, peraltro negli stessi Stati Uniti dove i principali candidati presidenziali hanno espresso riserve più o meno gravi.
Più in generale, TPP e AP sembrano animate da forti analogie sui presupposti politico-istituzionali necessari alla crescita e sugli strumenti con cui perseguirla, a partire dalla convergenza in materia di regolazione degli investimenti, della proprietà intellettuale e degli standard tecnici nel settore manifatturiero. Lo stesso non si può affermare per il Mercosur, assai più cauto in tema di trattati di libero scambio e sospettoso nei confronti dell’influenza statunitense. Ne conseguirebbe una crescente integrazione delle economie sudamericane della sponda pacifica con i grandi mercati internazionali ma anche un ampliamento, quantomeno temporaneo, della divergenza tra i blocchi economici del continente.
Sarebbe tuttavia semplicistico ridurre questa divergenza alla contrapposizione destra/sinistra, oppure filo/anti-americanismo, vista la diversa collocazione dei governi di Santiago, Lima, Bogotà e Città del Messico su questi assi. La lezione della geografia ci è probabilmente più utile di una lettura tutta politica di una fase assai dinamica, come ci ricordano peraltro le notizie provenienti in queste settimane da Brasilia.
Allo stesso modo, se si alza lo sguardo oltre l’orizzonte continentale, sarebbe riduttivo vedere nella vivacità del blocco pacifico il mero riflesso locale di un progetto di globalizzazione guidato da Washington. Qui è la lezione della storia a mostrare come spesso, anche nelle relazioni inter-americane, la capacità di iniziativa e condizionamento dei soggetti periferici nei confronti del soggetto egemone sia stata considerevole, e come il potere di Washington di determinare gli eventi nella regione sia in declino. Ma è innegabile che l’esaurimento dell’ondata bolivariana, la crisi brasiliana e la fine del commodity boom trainato dalla crescita cinese stia disegnando uno scenario politico e economico in cui si aprono nuovi spazi di collaborazione tra gli Stati Uniti e le repubbliche latinoamericane.
Va infine tenuto in conto l’effetto Obama: secondo i dati di Latinobarómetro (istituto demoscopico cileno), in Sud America l’opinione favorevole verso gli Stati Uniti è salita dal 58% nel 2008 al 69% nel 2013. Ma sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca a cogliere, o sprecare, questa opportunità.