Quello che sta accadendo negli Stati Uniti va preso sul serio. Il paese è in movimento da ormai due anni perché serissime sono le questioni che deve affrontare: crisi economica, modello di sviluppo, ruolo nel mondo globale, assetto sociale, rinnovamento della classe politica. E la propria idea di nazione “eccezionale”. Di conseguenza l’approvazione di una riforma di carattere estensivo, che esprime un principio universalistico e che inverte una tendenza culturale di lungo periodo (il consenso verso l’ideologia dello “stato minimo”) è un evento politico di portata globale; ammesso, ovviamente, che la questione dei “vizi di forma” sollevata dai Repubblicani non rimetta in forse l’approvazione finale. Al di là di qualsiasi giudizio sul testo in sé, di qualsiasi analisi certosina del contenuto della legge, questo è un successo politico. Almeno per oggi Obama ha ragione perché ha vinto, e ha ragione quando afferma che “questa non è una riforma radicale, è una riforma importante”.
Insomma, siamo di fronte a un evento che rafforza il messaggio che Barack Obama ha promosso dall’inizio del 2007, quello del “change”, qualsiasi giudizio abbiate del contenuto di questo cambiamento. E il cambiamento è politico, di quelli che possono spostare gli equilibri. Sappiamo che i prossimi temi in agenda saranno il lavoro e la riforma della normativa sull’immigrazione: non è un caso che domenica a Washington manifestassero i sindacati a sostenere una riforma della sanità che, una volta approvata, apre la strada anche ad altri interventi legislativi. In particolare, c’erano le magliette viola della Seiu, il giovane sindacato che raggruppa i lavoratori dei servizi. E c’erano molti ispanici, che premono direttamente per le prossime grande riforme, affinchè riguardino loro e le loro famiglie.
Le analisi politiche di queste prime ore formano una sorta di caleidoscopio, un’infinità di frammenti che si possono raggruppare in tre grandi interpretazioni e altre posizioni sparse. C’è “l’approccio di Pirro”, ben rappresentato dall’ex Speaker repubblicano Newt Gingrich, che prevede per Barack Obama un finale alla Lyndon Johnson, cioè una vittoria di Pirro: l’approvazione del Civil Right Act del 1964 fu un passo troppo lungo per la società americana, così lungo da decretare la fine politica del presidente texano. E Johnson aveva per le mani anche il Vietnam, che subito fa venire alla mente l’Afghanistan di Obama.
Con questa interpretazione fa il paio quella del “mantra socialista”: lo stato sta prendendo possesso delle vite degli americani, limitandone la libertà. Perciò Obama sarebbe “un-American”, essendo la libertà dell’individuo intrinsecamente americana: la scelta del nome del movimento che sostiene questa tesi, il “Tea Party” (sotto il Campidoglio domenica scorsa a contestare la riforma di Obama), ci ricorda che la repubblica americana è nata da un atto di ribellione contro un tiranno straniero. Evidentemente Obama è un nuovo tiranno straniero, o quantomeno estraneo a quella grande tradizione.
La terza interpretazione arriva dai commentatori liberal, quelli critici con l’amministrazione fin dai suoi primi passi, come gli economisti Robert Reich e Paul Krugman, o come Robert Kuttner di “The American Prospect”, per il quale Obama è un “born again progressive”, avendo riscoperto solo ora la sua natura liberal. Sono intellettuali e tecnici insoddisfatti dalle mosse dell’amministrazione, perché sarebbero troppo poco liberal, ma felici di poter dire che oggi si è cambiata la storia: non per la qualità della riforma approvata ma per il semplice fatto di aver battuto i conservatori su un terreno così delicato. Il loro è l’approccio del “realismo progressista”: si deve fare di più, ma da qualche parte dovevamo pure cominciare.
E ci sono, ovviamente, i liberal come E. J. Dionne del Washington Post che semplicemente evidenziano, entusiasti, la portata storica di questo evento.
Poi ci sono le posizioni legate a punti di vista più specifici: quelli preoccupati per l’espansione del budget federale; quelli che descrivono chi ha vinto e chi ha perso nel gioco delle lobby di Washington (“su” il settore farmaceutico, quello ospedaliero e l’associazione dei medici americani su; “giù” il settore assicurativo); quelli che dicono “ma quando ti occupi della politica estera?”; le vedove della bipartisanship; i fan di Nancy Pelosi.
Da segnalare, nel campo repubblicano, la voce fuori dal coro di David Frum (il neoconservatore canadese e speechwriter di George W. Bush che coniò il termine “asse del male”): è vero che i Repubblicani guadagneranno seggi nelle elezioni di medio termine del 2010, ma “legislative majorities come and go. This healthcare bill is forever”. Questa rimarrà dunque come una vera debacle. Secondo Frum la fuga populista del partito repubblicano aiuterà il mondo dell’infotainment conservatore a crescere negli ascolti, ma non aumenterà le possibilità di espansione della coalizione conservatrice, sempre più bianca, sempre più del sud, sempre più omogenea. La strategia del muro contro muro era giusta nel 1994, con un presidente Clinton eletto dal 42% degli americani, non con un Obama che ha ottenuto il 53% dei consensi. Nella prospettiva delle presidenziali del 2012, allora, quella di Pirro potrebbe essere la vittoria repubblicana nelle elezioni di medio termine, senza contare che tra qualche mese potrebbe diminuire il numero dei disoccupati, mentre alcune categorie sociali avranno già ottenuto i primi benefici della riforma sanitaria: un buon viatico per una sconfitta accettabile e onorevole da parte dei Democratici.
Il passo dello scontro tra Repubblicani e Democratici è comunque quello della maratona, nonostante l’isteria che ci accompagnerà di qui alle elezioni congressuali di novembre. In gioco non ci sono solo le presidenziali del 2012, ma anche la scelta del campo sul quale giocare: quello della “perdita della libertà” degli slogan repubblicani o quello dell’immagine di un paese “che risorge unito, senza lasciarsi nessuno alle spalle”, proposto dai Democratici. La battaglia, insomma, è per la conquista dei cuori e delle menti degli americani, per imporre il proprio immaginario politico a danno di quello dell’avversario, all’interno di un sistema politico sempre più polarizzato dove prima di tutto conta galvanizzare i propri fan.
Fra le tante letture che il web offre in questi giorni ne consigliamo una appena precedente il voto del 21 marzo: si tratta di “How to Stop the Bleeding. Obama needs to learn Reagan’s lessons from 1982”, apparso su The New Republic a firma John Judis. Racconta come Ronald Reagan riuscì a contenere la sconfitta elettorale nelle elezioni di medio termine del 1982, nonostante la disoccupazione montante e l’economia in crisi. Lo fece mantenendo il punto del suo “change” (“vote your hopes, not your fears”); continuando ad addossare le colpe della crisi alla vecchia amministrazione Carter e sui Democratici per nulla cooperativi. Lo slogan di Reagan fu “stay the course”: manteniamo la rotta.