Se negli anni Settanta si diceva “tutto è politica”, forse esprimendo un’evidenza, ora si può dire con altrettanta chiarezza che “tutto è ambiente”. Sappiamo oggi che i vari modelli di sviluppo industriale, il nucleare, le abitudini alimentari, l’energia, l’abitare, e non ultima la demografia sono nell’insieme fattori che impattano direttamente sull’ecosistema.
Quando il 22 aprile scorso l’ONU ha celebrato il Mother Earth Day la data scelta non è stata casuale, perché ha coinciso con la firma, presso la sede delle Nazioni Unite a New York, degli accordi decisi a Parigi lo scorso dicembre durante l’ormai celebre COP21, la riunione planetaria di 196 paesi consci, come mai prima, della minaccia ambientale incombente specie a causa del surriscaldamento globale.
Tuttavia il declino dei diversi partiti verdi europei (si ricordino le “parabole” di quelli italiani e tedeschi, ad esempio), sembra testimoniare un netto décalage tra sensibilità comune e responsabilità amministrativa, dal momento che mai una tematica ecologica è riuscita a mantenere il proprio primato quando, da vincente slogan elettorale, ha dovuto tramutarsi in concreta azione politica.
Quel che si è fatto, molto prosaicamente, si è quindi spesso realizzato grazie all’incontro degli interessi: le sovvenzioni pubbliche, o sgravi fiscali, per permettere ai cittadini migliorie energetiche; così oggi dall’IEA (Agenzia Internazionale dell’Energia) apprendiamo che l’Italia è il paese leader al mondo per la produzione di rinnovabili con l’8% di energia pulita creata rispetto al fabbisogno nazionale. Questo può significare che la società civile è ormai più avanzata e matura rispetto alla rappresentanza politico-economica?
Forse, ma sarebbe molto complesso da dimostrare e probabilmente anche inutile; Angela Merkel, ad esempio, nel 2011 decretò l’uscita della Germania dal nucleare con una decisione dall’alto mentre nelle piazze tedesche gli attivisti dimostravano sull’onda del disastro di Fukushima. Ci fu una dialettica in quel caso tra vertice e base, ma è rimasto un episodio isolato.
Quindi, una cosa sono le politiche delle cancellerie a volte iper-reattive (è il caso tedesco appena ricordato, che Umberto Veronesi – presidente al tempo dell’Agenzia sulla sicurezza nucleare italiana – stigmatizzò come scelta irrazionale ed emotiva) e una cosa sono le dinamiche di medio periodo che si svolgono fuori dalle sedi di rappresentanza politica e amministrativa.
Se si guarda alle grandi capitali europee (Londra, Berlino) e a Milano, ad esempio, ci si accorge che il termine gentrification sta finalmente mutando di segno e assumendo una connotazione positiva rispetto al passato. E questo è merito delle nuove generazioni della classe media che, nell’avviare il processo di gentrificazione appunto, pretendono come il quartiere da rinnovare non sia solo alla moda boho-chic o hypster nel tempo libero, ma sia sostenibile come impatto ambientale 24 ore su 24. I pannelli solari, la raccolta differenziata, gli orti cittadini, il trasposto in biciletta o elettrico sono divenuti parole d’ordine del quotidiano e riguardano stile di vita ed educazione dei figli.
Insomma le smart city del futuro forse si chiameranno “città resilienti” e saranno un insieme di politiche che hanno senso compiuto unicamente nel loro insieme, come un dispositivo strategico che non può permettersi di promuovere la multimedialità e la mobilità mentre penalizza le persone e l’ambiente.
Le opzioni non mancano: chi non si accontenta di un elegante quartiere operaio nel centro di una metropoli europea, può scegliere la bioarchitettura radicale earthship ideata dall’architetto americano Michael Reynolds: una realtà più che una chimera per Stati Uniti e in diversi paesi europei come Portogallo, Germania, e Olanda. E’ questo uno stile di vita a impatto zero che stabilisce tra uomo e natura un rapporto simbiotico e di pari dignità, invece del classico un rapporto pensato in termini di sfruttamento-depauperamento. La parola d’ordine in questo caso è off the grid, ossia vivere scollegati dalla rete infrastrutturale dei servizi (luce, gas, acquedotto). Una scelta che potrà certo non piacere a tutti, ma che offre un’ulteriore opzione, dunque una forma di diversificazione.
Se il COP21 ha costituito un importante passo avanti, certo restano alcuni seri limiti. Il passo avanti è l’accettazione del global warming come dato inconfutabile (con buona pace di scienziati negazionisti, darwinisti, roussoiani di destra, stravaganti di ogni tipo e credo) da cui l’impegno a ridurre le emissioni di gas serra in comune accordo entro tempi e secondo parametri condivisi.
Lasciano invece molto a desiderare, accanto ai processi di ratifica che varieranno da paese a paese, le sanzioni per gli inadempienti. Il metodo individuato è quello del “name & shame”, ossia il pistolotto morale verso chi non si è impegnato abbastanza. Obiettivamente troppo poco per contrastare con efficacia il carico degli interessi strategici, nazionali e lobbistici in gioco.
Il referendum italiano appena concluso è stato in questo senso paradigmatico: l’Italia ha ratificato in sede ONU con altri 196 paesi l’accordo sulla riduzione dei gas serra ma ora consentirà alle compagnie petrolifere proroghe fino a 50 anni (parliamo eventualmente del 2066) per le trivellazioni d’idrocarburi nel Mediterraneo, gas e petrolio che finirà bruciato nell’atmosfera. Riceverà un monito per questo dai partner del sodalizio COP 21? No. Rischia invece una procedura d’infrazione a livello europeo, ma non per minaccia ambientale, bensì per violazione della concorrenza.
Insomma, la scommessa è seria: ma analizzando il problema anche dal punto di vista strettamente economico gli studi concordano: i costi da sostenere per raggiungere le emissioni zero saranno ricompensati dai benefici diretti, poiché è evidente che le desertificazioni, le migrazioni, le pandemie e i disastri ambientali hanno un costo clamoroso, ancorché considerato straordinario (quindi spesso extra budget), nel bilancio delle nazioni.
La giornata della terra, insomma, è tutti i giorni.