Quello di Boris Johnson è un grande successo personale. Il leader dei Tory è riuscito a far dimenticare il disastroso mandato di Theresa May, caduto in giugno di fronte alle continue bocciature del “Brexit Deal”, l’accordo di uscita, a Westminster. “BoJo”, primo ministro dal 24 luglio, dimessosi in tempo dal precedente governo prima che questo naufragasse, mantenendo sempre un profilo di informalità e diversità rispetto al caos politico in cui era piombato il Paese, è riuscito a convincere gli esausti elettori che grazie a lui la telenovela della Brexit sarebbe terminata una buona volta. Basta passaggi parlamentari a vuoto, basta imboscate alla Camera dei Comuni, basta estenuanti trattative tecniche con Bruxelles: il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea “senza se e senza ma”. Anche se poi ha dovuto negoziare con Bruxelles, accettando qualche compromesso, un suo accordo di uscita, siglato in ottobre – che in realtà differisce ben poco da quello a suo tempo ottenuto proprio dalla May. Johnson, inoltre, sa parlare all’Inghilterra working class: una capacità che pochissimi dei suoi predecessori Conservatori hanno avuto.
Si tratta davvero, però, di una valanga elettorale pro-Brexit? Su questo, è lecito avere qualche dubbio. Anzi: i britannici continuano ad apparire spaccati sul tema. Il successo dei Conservatori di Johnson è incontestabile, ma il loro 43,6%, sommato al 2% del Brexit Party, non raggiunge la metà degli elettori. La grande vittoria in seggi dei Conservatori (una quarantina di seggi sopra la maggioranza assoluta) è anche dovuta alla divisione nell’opposizione, divisione che in un sistema maggioritario a collegi uninominali come quello britannico si paga cara. Sommate, le forze che con più o meno forza sono contrarie alla Brexit – Laburisti, Liberal-Democratici, Partito Nazionalista Scozzese, Verdi – toccano il 50,3% dei voti. Ma conta poco, se si presentano con candidati diversi nei collegi, e senza accordi di desistenza. La desistenza invece ha funzionato tra il Brexit Party di Nigel Farage e i Conservatori di Boris Johnson. Più che desistenza: il Brexit Party alle europee di maggio 2019 aveva superato addirittura il 30% dei voti; ma stavolta ha deciso in pratica di regalare tutta la sua forza a Boris Johnson, in molti collegi non presentando nemmeno un suo candidato, dissolvendosi al 2%.
Come è chiaro dal confronto elettorale tra il 2017 e il 2019, lo sconfitto del voto britannico si chiama Jeremy Corbyn. Ma sui motivi della disfatta la discussione è aperta. Boris Johnson si è giovato di una posizione chiara, netta, sul tema che ossessiona il Regno Unito da più di tre anni: “Get Brexit done” è stato il suo slogan elettorale, portiamo a casa la Brexit. Il leader Laburista Corbyn, invece, non è riuscito a presentarsi come campione del Remain. Per prima cosa perché non lo è: mentre Johnson è stato uno dei volti della campagna referendaria per uscire dall’Unione Europea, praticamente onnipresente, Corbyn si è schierato per restare nella UE sempre con una certa freddezza e senza passione alcuna. In questo, ha incarnato lo spirito di molti britannici, inclusi molti elettori laburisti delle regioni più industriali e meno privilegiate del Regno Unito, per i quali il primo sentimento associato all’Unione Europea è l’indifferenza. Se queste elezioni potevano servire a fermare la Brexit, l’opportunità è stata sprecata.
Johnson dunque è riuscito a centrare la campagna elettorale su un tema problematico per i Laburisti a guida Corbyn. La macchina elettorale laburista ha provato a spostare la discussione su temi di politica sociale, come la difesa del servizio sanitario, l’istruzione o il precariato, ma non è bastato, anche perché la data delle elezioni anticipate era stata decisa solo 43 giorni prima. Il Labour è sì cresciuto rispetto agli spaventosi sondaggi di ottobre e novembre (alle Europee di maggio era finito addirittura dietro i Lib-Dem), ma è restato molto lontano dalla vittoria.
Eppure, come dimostra l’analisi dei dati per collegio, non è soltanto alla Brexit che si può imputare la sconfitta dei Laburisti. Sì, il partito di Corbyn ha perso oltre il 10% nelle roccaforti Leave (le zone dove più del 60% degli elettori votò per uscire dall’UE). Ma ha perso un pacchetto sostanzioso di voti anche nelle roccaforti Remain.
Qualcosa dunque non ha funzionato in profondità nella leadership di Jeremy Corbyn. Hanno pesato le furiose guerre intestine: una grossa fronda nel partito non ha mai accettato la svolta radicale impressa rispetto alle posizioni più liberali dei dirigenti precedenti. E Corbyn ha dovuto districarsi tra abbandoni, attacchi dai giornali vicini come il Guardian, cambi di casacca verso i Lib-Dem e addirittura accuse di antisemitismo, che ne hanno appannato l’immagine, il carisma e la forza. In questo modo, il tentativo di spostare il dibattito da Brexit ai temi economici e sociali, condotto a colpi di minacce ai milionari e promesse di giustizia sociale spiccia, oltre che confuso è potuto apparire anche patetico, e ha impaurito una parte del Paese. Alcuni candidati Laburisti, dopo la sconfitta, hanno ammesso di essersi sentiti ripetere dagli elettori, durante la campagna: “Boris Johnson non ci piace, ma meglio la Brexit di Jeremy Corbyn”.
Corbyn, paradossalmente, ha finito per fare due regali a Boris Johnson: il primo è stato l’ottimo risultato dei Laburisti nel 2017, che ha impedito a Theresa May di far passare i suoi accordi in parlamento, e reso possibile la scalata di Johnson sul partito Conservatore. Il secondo è stato la disfatta che ha dato la maggioranza assoluta a Johnson. Disfatta che ha anche influito sulla crescita dei Liberal-Democratici, passati dal 7, 3 all’11,5%. Ma il maggioritario britannico è spietato con le terze forze: i Lib-Dem restano ininfluenti in Parlamento, dove per di più perdono un seggio (passando da 12 a 11). Per ironia della sorte, si tratta del seggio della loro leader, Jo Swinson, che per 146 voti di differenza non sarà più deputata.
In Scozia, la crisi dei Laburisti ha messo il vento in poppa ai nazionalisti di Nicola Sturgeon. L’SNP (Scottish Nationalist Party) conquista 48 seggi su 59, e fa sapere a Londra che se il Regno Unito vuole uscire dall’Unione Europea, anche la Scozia ha il diritto a decidere sul suo futuro. Il referendum del 2014 comunque era finito con una pesante sconfitta per gli indipendentisti, fermi al 44,7%. La Scozia, tra l’altro, è un handicap pesante per i Laburisti, abituati a fare man bassa di seggi fino ancora a dieci anni fa – come si vede nella mappa. La crescita dell’SNP ha praticamente espulso i Laburisti (che pure avevano avuto primi ministri scozzesi come Tony Blair e Gordon Brown) dalla mappa politica della regione: oggi, di seggi, ne hanno conquistato solo uno. Ma nemmeno i Conservatori se la passano bene in Scozia; le premesse per un divorzio politico si sono rafforzate.
Cosa accade ora? Boris Johnson aveva promesso che il nuovo parlamento avrebbe avuto tempo per discutere sopra temi di grande complessità come quelli riguardanti l’uscita dalla UE, ma la decisione appena presa è un’altra. In 37 giorni lavorativi si deve fare tutto. Marce forzate per i Comuni e per i Lord, con l’obiettivo di chiudere la legislazione necessaria ad ottenere la Brexit entro il 31 gennaio sulla base dell’ultimo accordo raggiunto. A Bruxelles annuiscono: non ne possono più nemmeno loro. Dopo, comincerà la lunga e complessa fase per definire il nuovo rapporto tra Regno Unito e Unione Europea.
Il vecchio regime commerciale durava dal 1973. Come sarà il nuovo? Cosa accadrà quando l’Irlanda del Nord uscirà dall’area doganale britannica come richiede l’accordo? Le merci inglesi potranno essere vendute nella UE senza dazi? A queste domande, nessuno dei candidati ha dato risposta.