Oltre 120 miliardi di dollari americani, questo il valore stimato dei progetti che coinvolgono le aziende cinesi e i diversi paesi lungo la Via della Seta. Ma se i numeri e l’impatto economico dell’iniziativa sono ormai noti, si deve anche sottolineare l’importanza fondamentale che il governo cinese dà alla Via della Seta nel proprio discorso politico.
Lanciata nel 2013 dall’attuale presidente Xi Jinping, la Nuova Via della Seta ha valenza strategica nella narrativa di rebranding ad opera dei leader della Repubblica Popolare. La Cina infatti fin dagli anni Novanta cerca di mutare la sua immagine: da nazione potenzialmente pericolosa, ad affidabile attore della politica multilaterale. E così si fa uso e abuso nei discorsi politici e sulla stampa di stato della tradizione confuciana, della retorica della pace, dell’armonia e della cooperazione, in contrapposizione con la cultura della violenza, dello scontro e dell’isolamento. Figlia di questa nuova linea di pensiero è la politica di “Sviluppo pacifico” (和平发展 Hépíng fāzhǎn), la cui definizione è stata scelta in un secondo momento, in sostituzione della formula “Ascesa pacifica” (和平崛起 Hépíng juéqǐ) – che suggeriva una rapida scalata al vertice delle potenze mondiali e rischiava di scatenare potenziali sospetti tra stati vicini sulle reali intenzioni della politica cinese.
A supporto quindi di tale obiettivo prende forma il progetto della Via della Seta: sapientemente costruito a livello narrativo, attraverso l’utilizzo di parole ricorrenti, immagini positive e distensive, questo progetto si è accompagnato allo sforzo di allontanare tra la popolazione cinese ed estera possibili critiche sulle reali ripercussioni geopolitiche dell’iniziativa. Nel discorso di apertura del Forum sulla Via della Seta del 14 maggio 2017, a Pechino, il Presidente Xi afferma: “Nella realizzazione della Via della Seta non utilizzeremo le vecchie manovre geopolitiche ma ciò che speriamo di raggiungere è un nuovo modello di cooperazione reciproca. L’obbiettivo è la costruzione di una grande famiglia di coesistenza armoniosa”.
Nonostante ciò alcuni dubbi sono rimasti, soprattutto tra gli stati maggiormente coinvolti nel progetto cinese. Una delle paure più grandi è senz’altro quella dell’utilizzo dell’iniziativa come strumento geopolitico: una sorta di “diplomazia della trappola debitoria” per colpire i paesi terzi e imporre i propri termini nelle relazioni reciproche. A sostegno di questa tesi non mancano gli esempi. Sul finire del 2016 lo Sri Lanka, incapace di pagare gli interessi alla Cina, ha dovuto concedere svariati ettari di terreno in locazione per 99 anni. Per lo stesso motivo alcuni paesi, tra cui Pakistan e Malesia, hanno iniziato a cancellare alcuni progetti della Via della Seta.
Questo concetto di armonia e pace, che per noi occidentali ha mero valore retorico, per i cinesi e le popolazioni dei paesi satelliti si riallaccia alla cultura e tradizione confuciana che per secoli ha influenzato la struttura e le dinamiche socio-politiche del Sud-Est asiatico. “Tra tutte le cose che sono state portate dai riti (intesi quali leggi, stato di diritto etc.), la pace è quella di maggior valore” (I dialoghi di Confucio 1.2). In questo contesto, un ambiente pacifico non equivale semplicemente all’assenza di guerra ma a una condizione in cui tutti gli attori coinvolti abbiano un interesse comune e siano quindi spronati a coordinarsi per raggiungere obiettivi simili. L’invito della RPC ai paesi di Asia, Europa e Africa ad associarsi e unirsi alla realizzazione della Via della Seta, riecheggia questa comunanza di interessi e di benefici. E’ evidente che i leader cinesi siano stati abili a trasformare una tradizione risalente a più di 5000 anni fa in strumento diplomatico carico di valenza politica.
Ma la cooperazione politica nelle relazioni internazionali è ormai roba vecchia: protagonista del mondo multilaterale della seconda metà del secolo scorso. I cinesi, consci di ciò, hanno deciso di fondare la Via della Seta non sulle alleanze tradizionali, fossero esse bilaterali o multilaterali, ma sul concetto di ”amicizia”. L’amicizia è valore primario nelle relazioni tra le persone così come tra gli Stati. L’amicizia dà alle relazioni internazionali qualcosa di più che il rispetto reciproco: dà fiducia e affidabilità. In questa visione ideale, dunque, un nuovo tipo di relazioni internazionali si rinnova attraverso la Via della Seta: la politica di buon vicinato (睦邻政策 Mùlín zhèngcè). Così l’impegno della Cina a favorire l’ambiente ideale per lo sviluppo economico si accompagna alla creazione di relazioni pacifiche.
Ma se il discorso politico, così costruito, è apprezzato e appoggiato dalla popolazione cinese, dove la stampa non ha possibilità di intavolare una discussione critica, diversa è la percezione all’esterno. In Europa, gli scettici affermano che la Nuova Via della Seta sia per la Cina lo strumento perfetto per aumentare la propria influenza sul piano globale, sostenendo l’esportazione dei propri beni in maniera largamente più vantaggiosa rispetto ai suoi partner. Ciò che manca è una definizione ufficiale e condivisa dello scopo geopolitico dell’iniziativa, così come una classificazione e regole chiare per i progetti che confluiscono nella Nuova Via della Seta.
E come si forma un’amicizia tra stati? Attraverso esperienze condivise. La storia assume quindi grande valenza nei discorsi dei leader cinesi. Usata già durante la Dinastina Han, che governò la Cina dal 200 aC al 220 dC, la Via della Seta è stata motore dello sviluppo culturale ed economico di Asia, Europa e Africa. “La storia è infatti la nostra migliore maestra. La gloria della vecchia Via della Seta ci mostra che le distanze geografiche non sono insormontabili se abbiamo il coraggio di venirci incontro, e imbarcarci in un cammino che porti amicizia, sviluppo comune, pace, armonia ed un futuro migliore” – ricordava Xi Jinping sempre al Forum sulle Vie della Seta.
Nell’antichità in effetti le connessioni tra i tre continenti erano più sofisticate di ciò che si potrebbe pensare. Dalle oasi del deserto ai margini occidentali della Cina si sviluppavano tre vie principali: due al nord collegavano Tien Shan all’Asia centrale, mentre una terza più a sud univa lo Xinjiang al Pakistan. Le vie della seta attraversavano poi l’Anatolia fino ad arrivare nei porti del Mediterraneo. Città come Samarcanda, Palmira e Baghdad prosperavano lungo queste vie. Ma non solo beni materiali venivano veicolati: idee, tecniche ingegneristiche e religione venivano trasportate da un capo all’altro del mondo allora conosciuto. Questa eredità vuole essere raccolta dalla Cina come mezzo per guidare una nuova fase della politica globale.
Si tratta di sfruttare il concetto di cooperazione come ricetta vincente: un sistema pacifico in cui vincono tutti perché tutti ne ricavano benefici. Metafora azzeccata è quindi quella del ponte (桥), ripresa ad esempio da Xi Jinping nel discorso al Collegio Europeo il 4 Aprile 2014. Quest’iniziativa infatti non è solo una fitta rete di progetti infrastrutturali, ma è l’esempio pratico della volontà di unire popoli diversi per il raggiungimento dello stesso obbiettivo, ossia la realizzazione di una società in cui i bisogni dei cittadini siano soddisfatti (小康社会 Xiǎokāng shèhuì).
Se questo è lo scopo, la Cina dovrà fare ancora tanto per mettere a tacere le voci critiche di molti paesi che vedono nella Via della Seta un progetto titanico volto a riscrivere gli equilibri geopolitici globali e le regole delle relazioni internazionali. Primi fra tutti gli USA.