La vertigine europea e le sfide in arrivo

Una vertigine spaventosa. È forse questa la sensazione che avranno provato le élite politiche europee alla notizia della vittoria di Donald Trump, per di più imprevista e dunque ancora più sconvolgente, secondo l’ormai classico schema-Brexit. “Una Brexit tre volte più potente”, ha ribadito lo stesso Trump – che già aveva definito quel risultato “fantastico”. D’altronde, il primo politico europeo che il Presidente-eletto ha incontrato (in maniera informale) è stato l’anti-UE Nigel Farage. Già celebre lo scattoche li immortala nell’ascensore d’oro della Trump Tower, a Manhattan.

C’è poco da dire sulle sensazioni dell’opinione pubblica nel Vecchio Continente: benché Hillary Clinton piacesse in fondo a pochi, gli europei avrebbero voluto vedere lei alla Casa Bianca. Anche se la vittoria di Trump, come ci si poteva aspettare, ha spinto alcuni suoi sostenitori a svelarsi, e anche se non è ancora chiaro il programma d’azione del Presidente-eletto, il sentimento prevalente è quello di una più o meno grande preoccupazione.

A riprova della freddezza del Vecchio Continente basti dire che durante la campagna anche il “tifo” delle forze anti-sistema di destra europee, quelle che sembravano ideologicamente più vicine a Trump, appariva più che altro di circostanza. Spaventati dalle gaffes e dai sondaggi negativi, i vari Marine Le Pen e Nigel Farage evitavano l’argomento, trattando Trump un po’ come un lontano parente anti-establishment di oltreoceano. Dopo il voto però, le cose sono cambiate.

L’interpretazione che ha dominato i commenti a caldo, cioè che gli americani abbiano votato sulle ali di una rivolta di massa contro la politica politicante, la globalizzazione e la casta di Washington, cozza contro due fatti. Primo: la politicante Clinton ha preso oltre due milioni di voti in più dell’outsider Trump. Secondo: il numero di voti ottenuti dal vincitore è in linea con quello di Mitt Romney e John McCain, sconfitti da Obama nel 2012 e nel 2008, candidati repubblicani ben più canonici.

Ciononostante, quella interpretazione ha prevalso nel circuito politico-mediatico. E i partiti della destra anti-sistema l’hanno subito fatta propria, perché concorde con la loro narrazione, trasformando il lontano parente in un fratello in armi. “I popoli liberi tornano a essere protagonisti; l’impossibile è possibile se il popolo lo vuole”, ha twittato Marine Le Pen. Sia lei che Geert Wilders (“Rivoluzione! Anche noi restituiremo il paese agli olandesi”) richiamano le elezioni nei loro paesi, rispettivamente nel maggio e nel marzo 2017.

Naturalmente, la mezza giravolta della destra anti-sistema, che ora suona la carica elettorale, è comprensibile. Ma anche altre forze che si dichiarano anti-sistema non rinunciano a presentare Trump come una conferma di ciò che hanno sempre sostenuto. “Una cattiva notizia, ma significa che il sistema è odiato e marcio”, hanno commentato Pablo Iglesias e Pablo Bustinduy, uno leader e l’altro addetto alle questioni internazionali di Podemos. “Trump praticamente ha fatto un V-Day”, ha scritto Beppe Grillo nel suo post ad hoc. Frauke Petry, dirigente di Alternative für Deutschland, aveva criticato le proposte di Trump sull’immigrazione come “problematiche” e semplicistiche; dopo il voto ha salutato (con un occhio al voto tedesco di settembre) “la grande occasione del popolo americano che si è pronunciato contro malcostume e corruzione”.

Quello che si è trasformato in un enorme spot per le forze anti-sistema, ha lasciato allo stesso tempo i governi delle capitali europee e le istituzioni di Bruxelles sotto choc.

L’unica reazione netta, che conferma la durezza del colpo ricevuto, è arrivata dall’impulsivo presidente della Commissione. Forse ancora scottato dalla provocazione di Trump in campagna elettorale (“Belgio? Cos’è, un villaggio in Europa?”), Jean-Claude Juncker è sbottato sprezzante: “Ci toccherà aspettare due anni che impari come funziona il mondo e la UE. Ma tanto agli americani in generale non importa nulla”. Nelle ore successive, in un contrasto di grande valore simbolico, il presidente uscente Barack Obama avrebbe incontrato i principali capi di Stato e di governo europeo a Berlino, ospite di Angela Merkel.

È giusto chiedersi cosa, del futuro inquilino della Casa Bianca, preoccupi davvero le élite politiche europee – l’establishment nostrano. Il programma internazionale del Presidente-eletto, forse, che interessa in pieno l’Europa ma non la considera interlocutrice fondamentale su nessuna delle questioni più calde. Rivedere le modalità l’impegno americano in Medio Oriente e Nord Africa, della lotta al terrorismo, del rapporto con la Russia, degli accordi commerciali con Londra, come ha promesso di fare Trump, influenzerebbe in pieno gli affari del nostro continente. Decisioni unilaterali da Washington favorirebbero poi liti e divisioni tra i paesi dell’UE: è facile prevederlo, dopo l’esperienza del doppio mandato di George W. Bush, dato che lo scenario di oggi è ancora più complesso.

È allora questa condanna all’irrilevanza, con la possibile aggravante della disgregazione, a fare rabbia e paura? C’è probabilmente anche un altro fattore in gioco.

Donald Trump, in effetti, ha smentito i due assiomi sui quali i partiti tradizionali europei si preparavano ad affrontare il 2017. Per primo, che un candidato “anti-establishment” non possa vincere contro un “moderato”. Per secondo, che il sostegno dei media valga come “paraurti”; in America, ciò non è accaduto né dal lato attivo con gli endorsement, né da quello passivo con la demonizzazione di un personaggio contro cui “si deve” votare. Il New York Times, uno dei quotidiani progressisti più influenti nel mondo, ha dovuto scusarsi con i suoi sottoscrittori per aver trattato Trump come un fenomeno passeggero, buffonesco e perdente. Questa messa a fuoco errata è stata però seguita da tanti media europei, e spiega in parte la tensione che si nota ora tra le élite politiche del Vecchio Continente.

Ci sono altri elementi a preoccuparle: Clinton, pur nella “sconfitta”, ha goduto del traino rappresentato dall’opinione positiva di Barack Obama che hanno gli statunitensi. Ma nessun capo di governo dei principali paesi UE gode di altrettanta popolarità. Al contrario, i multiformi sistemi politici europei offrono agli insoddisfatti la possibilità di esprimersi in molti modi, diversamente dal rigido bipartitismo americano. Inoltre, aggravano il quadro i malfunzionamenti dei rapporti tra Stati-membri e UE, e le varie crisi finanziarie e migratorie in corso su questa sponda dell’Atlantico.

Il senso delle elezioni americane va allora ben oltre quello di un voto anti-establishment. La mappa elettorale evidenzia che alcune regioni come la rust belt ex industriale, il Mid-West rurale e diverse zone interne nord orientali, sono passate nettamente da Obama a Trump. Da queste regioni era arrivato un consenso molto forte per Bernie Sanders alle primarie Democratiche; il loro successivo rifiuto della candidata Hillary Clinton è stato tra i fattori più decisivi nell’esito elettorale. Senza il voto di alcuni di questi stati, Trump non sarebbe oggi Presidente.

Si tratta di regioni ormai distaccate in maniera stabile dal dinamismo globalizzato di altre aree. E il distacco, tanto quanto economico (da una parte si “perdono” cervelli, dall’altra si attirano; da una i posti di lavoro vengono distrutti, dall’altra se ne creano di nuovi), è culturale: educazione tecnico-scientifica di medio-basso livello contro universitaria di medio-alto livello. In queste regioni, ormai la volontà di premiare l’offerta di cambiamento più radicale supera le tradizionali appartenenze politiche: ecco spiegato il salto Obama-Sanders-Trump.

Ma il fatto è che di regioni simili abbonda l’Europa centro-occidentale. Il nord-est francese, e l’est tedesco, per esempio: entrambi già serbatoi elettorali dei partiti “anti-sistema”. Anche il nord (ex) industriale inglese ha caratteristiche del genere. La preferenza di quelle province, nonostante la loro tradizione laburista, è stata decisiva nel voto pro-Brexit del 23 giugno.

Le élite politiche europee, in generale, non sono riuscite a cogliere né la portata delle nuove fratture sociali, né la loro profondità, né le conseguenze. Come se nelle loro orecchie continuasse a risuonare il ritornello di Across the Universe dei Beatles: “Nothing’s gonna change my world“. La vittoria di Trump, si dice, può fungere da campanello d’allarme, da richiamo, da sveglia. No: quel momento appare passato, e le coordinate politico-elettorali mutate. Ciò annuncia che il girone elettorale del 2017 (Paesi Bassi, Francia e Germania sono gli appuntamenti principali) per una parte dell’establishment nostrano potrà avere dei toni danteschi.

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