La versione del Governatore di Bankitalia: UE e futuro della globalizzazione

La lettura delle considerazioni finali di un Governatore di Bankitalia dovrebbe essere pratica comune di chiunque voglia tenersi informato con un sovrappiù di accuratezza, visto che le analisi dei banchieri centrali sono sempre piene di informazioni e di riflessioni utili. Tanto più si dovrebbero leggere quando un Governatore raggiunge la quota dei suoi mandati e perciò infila il suo messaggio nella bottiglia e la lancia nel mare del dibattito pubblico senza più troppe remore. O, almeno, questo è l’auspicio.

Le ultime considerazioni finali del Governatore Visco (31 maggio), da questo punto di vista, sono una lettura assai istruttiva, anche se limitiamo l’attenzione solo a due grandi temi – la globalizzazione e il futuro dell’Unione Europea.

L’analisi del contesto internazionale, che non è buono per i noti motivi, conduce alla conclusione che “l’emergere di fratture nelle relazioni internazionali può avere effetti duraturi, influenzando le strategie aziendali di lungo periodo, incluse quelle di localizzazione delle produzioni”. Molti Paesi, insomma, stanno considerando di internalizzare alcuni “pezzi” delle catene di fornitura. O quantomeno se ne parla molto come rimedio nei confronti di una globalizzazione giudicata fonte di insicurezza.

Di fronte a questa pulsione “è vitale perseguire con forza, nonostante tutto, la cooperazione internazionale, anche in campo economico e finanziario, e ricercare un dialogo che accolga diversità di valori tra Paesi e culture, sulla base del rispetto dei principi fondamentali della convivenza pacifica”.

Anche perché “la sicurezza nazionale può essere tutelata evitando politiche protezionistiche generalizzate”. Non c’è quindi un dover scegliere fra protezione degli interessi nazionali e libertà di commercio internazionale. Occorre trovare il modo di temperare le due cose avendo come obiettivo la prosperità, che, ci ricorda la storia, ha tutto da guadagnare dalla cooperazione fra i Paesi.

L’auspicio del Governatore contrasta tuttavia con una tendenza che si osserva chiaramente notando l’aumento significativo delle restrizioni al commercio che ha caratterizzato gli ultimi anni e che non sembra affatto sul punto di invertirsi. Al contrario: “Dall’invasione dell’Ucraina, le indagini presso le imprese, non solo italiane, mostrano che è in atto una tendenza, per ora moderata, alla regionalizzazione e alla diversificazione delle catene di fornitura”.

 

Questa tendenza, che è un fatto squisitamente politico, ha chiare ricadute economiche che si traducono in “costi e tempi di aggiustamento non trascurabili” e che deve (dovrebbe) essere perseguito “senza mettere in discussione le fondamenta di un ordine internazionale basato su regole condivise e aperto ai movimenti di beni, servizi, capitali, persone e idee”.

La qualcosa purtroppo confligge con la tendenza stessa: non si chiudono le frontiere alle merci se non si sono già chiuse le frontiere alle idee. Con l’aggravante che “un ricorso indiscriminato a sussidi e restrizioni nel commercio internazionale volto a influenzare la localizzazione delle imprese, oltre a introdurre distorsioni nella concorrenza, rischierebbe di produrre nuove tensioni, anche nei rapporti tra Paesi affini per valori, istituti e politiche”. Si rischia, insomma, di replicare cent’anni dopo il disastro del primo dopoguerra, quando il sistema delle relazioni economiche internazionali crollò, vittima dei protezionismi incrociati.

Quanto a questo, suona persino nostalgico ricordare, che “negli ultimi trent’anni l’apertura dei mercati ha fornito un contributo fondamentale al benessere, non solo economico, di un’ampia parte della popolazione mondiale. Il numero di persone in condizioni di povertà estrema è sceso da quasi due miliardi a meno di 700 milioni; l’incidenza della popolazione in condizione di malnutrizione si è ridotta nei paesi in via di sviluppo da oltre il 25 a meno del 15 per cento. Vi si è accompagnato un forte incremento dell’alfabetizzazione e la speranza di vita si è allungata in media di più di 10 anni”.

 

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Il fatto che diamo per scontati questi progressi è probabilmente la ragione per la quale ormai vengono messi in discussione. Peraltro, oggi quelli che più di tutti lamentano la globalizzazione sono gli abitanti dei Paesi avanzati, nonostante i numeri invece ci raccontino un’altra storia. Sono altri quelli in difficoltà: “Oggi circa un quarto dei paesi emergenti è considerato ad alto rischio dall’FMI: i differenziali di rendimento dei relativi titoli pubblici si avvicinano ormai a quelli degli emittenti in stato di insolvenza”.

E’ vero altresì, sottolinea il Governatore, che nei Paesi avanzati la globalizzazione e l’innovazione tecnologica “hanno determinato anche una minore stabilità delle occupazioni e, in alcuni casi, un aumento delle disuguaglianze, cui le politiche pubbliche non hanno saputo dare una risposta adeguata”. Ma al tempo stesso “sarebbe un errore sottovalutare i benefici dell’integrazione dei mercati, in particolare in un’economia aperta come la nostra”.

Non solo la nostra. “I miglioramenti sono stati specialmente evidenti per le economie che in questo periodo si sono pienamente integrate nel commercio internazionale e nelle catene globali del valore”. Quindi innanzitutto i Paesi asiatici. Al contrario, “alcuni Paesi, principalmente dell’Africa subsahariana, dove in buona parte si concentra l’espansione demografica prevista per i prossimi decenni, ne sono invece stati toccati solo marginalmente”. E questo fa sorgere un paio di domande interessanti sulle prospettive dell’Africa. Che futuro si preparava per l’Africa in quel mondo globalizzato che ormai tutti dicono di non volere più? E invece adesso cosa si prepara?

Visco non ne parla direttamente, ma si limita a ricordarci che “le sfide da affrontare oggi – dalla lotta al cambiamento climatico al contrasto delle pandemie, dalla riduzione della povertà alla gestione delle pressioni migratorie – hanno natura globale e non possono essere risolte che con azioni coordinate a tale livello”.

Ma per preservare, come auspica il banchiere, “il funzionamento delle istituzioni multilaterali e ridare forza alla cooperazione internazionale” non basta “perseguire misure economiche effettivamente in grado di migliorare il benessere di tutti i cittadini, accompagnandole con una efficace comunicazione di strumenti e obiettivi”. Serve accompagnare questi processi con una visione d’insieme, della quale purtroppo finora non si comprendono i lineamenti.

Disponiamo, tuttavia, di alcuni indizi, che lo stesso Visco sottolinea nella sua allocuzione. Eccone uno: “Le politiche europee mostrano che si può rinsaldare la fiducia nei benefici dell’integrazione economica internazionale. La fiducia dei cittadini nella costruzione europea, infatti, è in crescita anche in ragione della capacità di intervento mostrata dalle istituzioni europee in occasione della pandemia”.

 

Non è perciò un caso che Visco dedichi un lungo capitolo della sua relazione all’altro grande tema del nostro tempo – il futuro dell’UE – sul quale il banchiere ha le idee chiare: “Per portare a termine il cammino avviato con l’adozione dell’euro sono necessari altri sostanziali progressi”.

Il primo passo, il più difficile da compiere, sarebbe quello di dotare l’Unione “di una capacità di bilancio sovranazionale, assente nella proposta di riforma della Commissione”, che “consentirebbe di gestire in modo più efficiente sia shock che colpiscono singoli paesi, sia eventi avversi comuni a tutti, come la pandemia e la crisi energetica”.

Non solo, ovviamente. “Un titolo di debito pubblico comune, da emettere a fronte della capacità di bilancio europea o determinato dalla condivisione di parte delle passività nazionali, potrebbe inoltre svolgere il ruolo di safe asset, assegnato ai titoli di Stato nelle altre principali economie, e sostenere gli interventi volti a dare concretezza al disegno di unione dei mercati dei capitali”. Detto diversamente, un debito comune farebbe dell’Europa qualcosa di terribilmente concreto.

Senonché, l’unione fiscale trova il suo senso in una costruzione che completi l’unione bancaria e l’unione del mercato dei capitali, entrambe essenziali per avere una prospettiva finanziaria davvero internazionale con un mercato di titoli pubblici europei liquido e profondo. Purtroppo queste riforme non sono mai state completate per le divisioni fra i Paesi membri. Le stesse che impediscono perciò di immaginare una capacità di bilancio comune.

Di queste difficoltà il Governatore è ovviamente consapevole ed è per questo che offre una proposta pragmatica, suggerendo di costruire iniziative comuni “prendendo spunto dagli strumenti varati durante l’emergenza pandemica: ad esempio, progettando forme di finanziamento comune degli stabilizzatori automatici, come è già avvenuto con il programma di prestiti per le misure di contrasto ai rischi di disoccupazione”. A un banchiere non si può chiedere di più. Ma a ben pensarci è già tanto.

Infatti, quando Visco ci ricorda che “solo con le più recenti, gravi, emergenze si sono superati in modo deciso dubbi ed esitazioni”, e che “la risposta delle politiche europee alla crisi pandemica è stata forte e tempestiva”, il Governatore ci riporta alle origini stesse della costruzione europea, alla vocazione funzionalista che originò le prime comunità di interessi, nella forma della CECA, che fioriva proprio mentre nel seno dell’OECE, quella che poi diventerà l’OCSE, chiamata a gestire i fondi del Piano Marshall, si sviluppava l’Unione europea dei pagamenti.

Qualche anno dopo arriverà la CEE, che poi diverrà l’UE. In questi frangenti era il bisogno – la necessità – a imporre le decisioni. Oggi non siamo in una situazione tanto diversa. L’Europa si trova ad affrontare la sua ennesima crisi di crescita, pressata da un conflitto alle proprie spalle, da una crescente dipendenza energetica, da una situazione demografica complicata che richiederà una quota crescente di risorse fiscali per sostenere le proprie popolazioni sempre più anziane, e con una pressione demografica crescente che arriva proprio da quell’Africa che non è stata beneficiata dalla globalizzazione.

Sono questi gli shock ai quali allude Visco quando propone la sua ricetta pragmatica, che letta in controluce ci comunica un’altra informazione. L’Europa – e il Recovery Fund ne è la dimostrazione – è in grado di generare enormi risorse per finanziare le sue necessità.

 

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Si potrebbe persino andare oltre. Questa capacità di generare risorse ha a che fare con la capacità di creare fiducia. Una caratteristica che l’Europa condivide con tutti quei Paesi che hanno sviluppato istituzioni politiche e sociali simili. Se tutti questi Paesi si consorziassero per emettere un debito di scopo comune, sarebbe molto facile finanziare non soltanto la transizione energetica, dei cui solo adesso iniziamo a farci un’idea, ma anche la transizione verso una maggiore prosperità dei paesi rimasti fuori dall’ultimo giro di globalizzazione.

Non si tratta di credere che la globalizzazione possa tornare come prima, cosa ovviamente non possibile. Ma di lavorare affinché si torni a guardare all’economia internazionale come a un’occasione di miglioramento per tutti, non come qualcosa da cui difendersi. Come un’opportunità, non come un problema.

Questo, a ben vedere, è l’auspicio più interessante che si intravede fra le righe delle ultime considerazioni finali di Visco. Ed è quello che dobbiamo raccogliere.

 

 

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