La superpotenza del nucleare civile? La UE

È l’Unione Europea il polo globale del nucleare civile, con 100 reattori nucleari attivi sul proprio territorio e una potenza elettrica installata di 96,4 gigawatt (GW) pari al 25,9% della capacità mondiale. Anzi, se si aggiungono Regno Unito, Svizzera e Ucraina, le cui centrali sono collegate alla rete elettrica dell’Unione Europea, formando il cosiddetto European Network of Transmission System Operators (ENTSO-E), il dominio europeo è indiscusso con 118 reattori e 128,4 GW di potenza elettrica, pari al 31,9% della potenza complessivamente installata nel mondo.

Energia nucleare nell’Unione Europea, 2020. Fonte: Eurostat

 

E questo dispiegamento di potenza elettrica sarebbe ancora più esteso se la Germania non avesse, forse troppo precipitosamente dopo il disastro di Fukushima (2011), abbandonato definitivamente la produzione di energia elettrica da fonte nucleare il 15 aprile 2023. Per dare una dimensione relativa a tali valori, Stati Uniti, Repubblica Popolare Cinese e Federazione Russa possiedono rispettivamente 93, 55 e 37 reattori nucleari equivalenti al 25,8%, 14,3% e 7,5% della quota mondiale di potenza elettrica installata.

 

Leggi anche: La Germania tra gas russo e tabù nucleare

 

Sebbene la Repubblica Popolare Cinese abbia annunciato la costruzione di 23 reattori nucleari per una potenza elettrica installata di 23,7 GW, ai quali merita di essere aggiunta l’ambizione indiana di costruire 8 nuovi reattori pari a 6,0 GW di potenza installata, la leadership del nucleare civile rimarrebbe comunque ben salda nelle mani dei Paesi europei, considerando anche che, spesso, i programmi nucleari rimangono incompiuti per ragioni pratiche di non fattibilità, a volte tecniche, altre volte economiche e sempre di più anche socio-ambientali.

Tuttavia, se la rete europea dei gestori di sistemi di trasmissione di energia elettrica detiene la maggiore quota mondiale di potenza elettrica installata in centrali nucleari, diversamente vale per la effettiva produzione di energia elettrica da fonte atomica, poiché nel 2022 il principale produttore al mondo sono stati gli Stati Uniti con 772,2 terawatt (TW) con una quota mondiale del 30,1%, seguita dalla rete europea con 728,4 TW, ovvero il 28,4% della produzione mondiale.

Questa discrepanza tra potenza elettrica installata ed energia elettrica prodotta da centrali nucleari indica che il potenziale dell’Unione Europea e dei paesi «elettricamente» alleati è ancora inespresso, anzi, inutilizzato: una condizione che genera costi di produzione unitari, e associati prezzi di vendita, più alti rispetto agli Stati Uniti, generalmente circa 70-80 euro per megawattora in Europa e 30 euro per megawattora negli Stati Uniti – dunque una differenza rilevante.

Per i Paesi che hanno scelto, anche decenni fa, di denuclearizzare il proprio territorio nazionale, o stanno pensando di denuclearizzarlo con la dismissione graduale dei propri reattori, la presenza di un così alto numero di reattori sul territorio continentale dovrebbe invece portare i governi nazionali e, laddove possibile, la cittadinanza a ripensare le scelte passate oppure a riconsiderare le decisioni presenti.

Se ci fosse, per esempio, un disastro nucleare ai reattori della centrale atomica francese di Cruas-Meysse, a poche centinaia di chilometri di distanza dal confine italiano e, voglia la sorte, proprio in giorni con vento di Maestrale spirante da nord-est, ebbene, per le autorità italiane sarebbe alquanto difficile fermare la nube radioattiva ai valichi di Ventimiglia, del Frejus o anche del Monte Bianco.

La questione dell’energia nucleare, o almeno della sicurezza nucleare, non è dunque faccenda nazionale, ma quantomeno continentale, ovvero comunitaria nel caso europeo. In altre parole, giardini incontaminati, dicasi nazioni totalmente denuclearizzate, non ce ne sono, né possono esserci in Europa, come nel resto del mondo.

Per i Paesi che hanno detto «no» al nucleare, adesso come allora, un’altra questione degna di essere affrontata, anche solo per il piacere della coerenza, è se tali Paesi acquistano energia elettrica dell’estero prodotta da fonte atomica, seppure facendone di necessità virtù, per esempio per il prezzo di acquisto più basso rispetto al mercato interno oppure incapacità di fronteggiare momenti di picco della domanda.

È interessante il caso dell’Italia che, nel 1987, votò plebiscitariamente contro tre quesiti referendari promossi dall’allora Partito Radicale che affossarono definitivamente l’energia nucleare civile nel Paese, una scelta elettorale probabilmente viziata dal disastro di Černobyl’ avvenuto l’anno precedente. E successivamente, nel 2011, un altro quesito referendario, il cui esito abrogativo di una precedente legge a favore dello sviluppo dell’energia nucleare civile fu viziato invece dal disastro della centrale nucleare di Fukushima.

Nel 2021, ultimo anno di dati consuntivi disponibili, i consumi italiani di energia elettrica sono stati di 300.887 gigawattora (GWh) di cui 258.097 coperti da produzione interna (85,8%) mentre i restanti 42.790 coperti da importazioni nette dai paesi confinanti (14,2%). L’Italia, dunque, per soddisfare il suo fabbisogno interno ha importato energia elettrica dall’estero, presumibilmente per capacità produttiva insufficiente, ma probabilmente anche per prezzi dell’energia elettrica sul mercato europeo più bassi rispetto ai prezzi offerti sul mercato interno.

Il prezzo di un chilowattora (kWh) di energia elettrica per uso non domestico potrebbe, per esempio, essere di 0,149 euro in Italia, mentre in Francia, il medesimo chilowattora, potrebbe avere un prezzo di 0,089 euro, cioè in Italia l’energia elettrica costerebbe mediamente a un’azienda il 67% in meno se questa energia elettrica fosse – e in parte è – acquistata da centrali elettriche francesi – o anche svizzere e slovene – alimentate con uranio piuttosto che da centrali elettriche italiane alimentate con gas naturale.

Infatti, la maggior parte dell’energia elettrica importata in Italia proviene dalla Svizzera (42,6%), dalla Francia (32,6%) e dalla piccola Slovenia (12,6%), anche se, nella pratica, attraverso la rete elettrica svizzera è veicolata verso l’Italia parte dell’energia elettrica francese, a causa dell’insufficiente capacità di trasporto diretto tra Francia e Italia.

Considerando che, sebbene in proporzioni diverse, i tre paesi confinanti di Francia, Svizzera e Slovenia producono energia elettrica da fonte atomica, risulta che il 7,03% dell’energia elettrica utilizzata in Italia è prodotta da centrali nucleari, una cifra comunque significativa per un Paese che ha espulso l’energia atomica dal proprio territorio o, detto più tecnicamente, dal proprio mix energetico.

La questione italiana non è, dunque, o non sembra essere, ideologica: come tale, forse merita di essere riconsiderata e riformulata per un futuro prossimo venturo, anche perché le tecnologie per la produzione di energia elettrica per fissione, ma anche per fusione, di atomi di uranio, non sono più quella del disastro di Černobyl’.

 

Leggi anche: Fusione nucleare: quando a scommettere sono gli investitori privati

 

E quanto vale per l’Italia vale anche per gli altri Paesi dell’Unione Europea che hanno respinto il nucleare o che contemplano di abbondarne l’uso entro i prossimi anni.

La nuova classe di reattori nucleari prende il nome di «reattori di quarta generazione», composta di tecnologie diverse tra loro, che mirano a migliorare i quattro principali punti critici della produzione di energia elettrica dall’atomo: costi, sicurezza, sostenibilità e, per ragioni meno industriali, proliferazione di ordigni bellici.

Il consorzio di tredici Paesi che sponsorizza e coordina le attività di sviluppo dei reattori di quarta generazione, dal nome Generation IV International Forum con membri come Francia, Russia, Cine e Stati Uniti, sostiene che nell’arco di un decennio i reattori appartenenti a questa classe consentiranno: una minore produzione di scorie radioattive tramite l’utilizzo delle scorie stesse come combustibile adoperato all’interno di un ciclo chiuso; un ridotto tempo di decadimento delle scorie residue pari non più a migliaia di anni ma a solo qualche secolo; un maggiore rendimento energetico di circa due-trecento volte superiore a parità di quantità di combustibile utilizzato; una serie più ampia e più economica di materiali utilizzabili come combustibili; una superiore sicurezza in caso di incidenti gravi tramite il funzionamento degli impianti non ad alte pressioni ma a pressione ambiente come pure l’arresto automatico dei reattori passivi e l’uso di refrigeranti molto meno pericolosi degli attuali.

Tra le tecnologie più promettenti, tutte fondate sulla fisica della fissione di atomi di uranio (cioè quella già attualmente in uso), rientrano il reattore ad altissima temperatura (Very High Temperature Reactor, VHTR), il reattore con sali fusi (Molten Salt Reactor, MSR), il reattore con acqua supercritica (Super Critical Water Reactor, SCWR), il reattore veloce autofertilizzante (Fast Breeder Reactor, FBR), il reattore con neutroni veloci refrigerato con gas (Gas-cooled Fast Reactor, GFR), il reattore con neutroni veloci refrigerato con sodio, (Sodium-cooled Fast Reactor, SFR) e il reattore con neutroni veloci refrigerato con piombo, (Lead-cooled Fast Reactor, LFR).

Se al miglioramento tecnologico complessivo dei nuovi reattori nucleari rispetto sia alle precedenti sia alle attuali versioni si associa anche un miglioramento organizzativo-gestionale delle centrali nucleari in termini di costi del capitale investito, costi del progetto, costi operativi, costi di manutenzione e, auspicabilmente, anche l’emissione di crediti di anidride carbonica (dopo che l’energia nucleare è rientrata nella tassonomia europea delle attività economiche eco-sostenibili per accelerare la decarbonizzazione), allora è molto probabile che il costo di un chilowattora di energia elettrica prodotta da una centrale nucleare costerà meno di un chilowattora prodotto da un centrale elettrica alimentata con carbone o con gas naturale. Dunque, a quel punto il cerchio si chiuderebbe definitivamente con la giustificazione economica dell’uso dell’energia atomica per produrre elettricità.

Tuttavia, il cerchio si chiude veramente se il combustibile che alimenta le centrali nucleari, ovvero l’uranio, è disponibile nelle quantità richieste, al tempo richiesto e naturalmente scambiato ai prezzi richiesti.

L’uranio, in verità, costituisce una piccola porzione del costo complessivo dell’energia nucleare, pochi punti percentuali del costo totale del singolo chilowattora di elettricità: dunque, dell’uranio è più importante la disponibilità che il prezzo di acquisto.

Le principali riserve naturali di uranio si trovano in Australia (28%), Kazakistan (13%) e Canada (10%); tuttavia, è il Kazakistan il principale produttore mondiale di uranio con una quota pari al 43% della produzione mondiale.

Kazatomprom, l’azienda di stato kazaka che da sola produce oltre un quinto della produzione mondiale di uranio, ha recentemente dichiarato che quest’anno la sua produzione di uranio sarà inferiore al previsto a causa della carenza di acido solforico, un materiale essenziale per i processi di raffinazione, cioè per l’estrazione del metallo uranio dal minerale grezzo, e che anche il piano di produzione per il 2025 potrebbe subire una forte riduzione.

È probabile che la dichiarazione della dirigenza di Kazatomprom sia solo tattica, ma comunque sintomatica di un’industria e di un mercato previsti in crescita dopo un decennio e più di stagnazione dopo il disastro di Fukushima. A corroborare questa ipotesi è anche il prezzo dell’uranio utilizzato per alimentare i reattori nucleari, che è più che triplicato dall’inizio del 2021, dovuto a un rinato interesse dei governi nazionali per l’energia nucleare, ovvero per le sue basse emissioni di anidride carbonica nella produzione di energia elettrica, cioè un mezzo estremamente utile per raggiungere il fine della neutralità climatica entro il 2050.

L’energia nucleare ha una contraddizione intrinseca: la sua effettiva rinnovabilità, cioè la circostanza che l’uranio non si rinnova, si consuma, e in più produce scorie di alta dannosità per ogni organismo vivente.

Tuttavia, l’energia nucleare rimane uno dei processi di produzione di energia elettrica più efficaci per de-carbonizzare il pianeta pur assicurando il fabbisogno energetico richiesto. E per l’Unione Europea, potenza mondiale dell’energia nucleare, smantellarne l’assetto economico-industriale costruito in quasi un secolo di duro lavoro sarebbe un autolesionistico, se non peggio, omaggio alla minacciosa concorrenza sistemica russo-cinese.

Il nucleare civile nel mondo nel 1988

 

 

 

EUenergynuclearenergy transitionnuclear energyEuropeeconomy