“Nessuno deve aspettarsi che la Turchia permetta la creazione di un corridoio del terrore in Siria settentrionale”. Le parole del presidente Recep Tayyip Erdoğan, lo scorso 1° settembre, evidenziano la motivazione strategica dell’operazione Fırat Kalkanı (“scudo dell’Eufrate”) lanciata il 24 agosto per la conquista di Jarabulus, cittadina siriana a pochissima distanza dal confine turco, proprio accanto al fiume Eufrate e alle sue grandi dighe.
L’obiettivo è impedire che l’azione militare del Pyd/Ypg curdo, il braccio siriano del Pkk (il movimento che dal 1984 è impegnato in attività insurrezionali sul suolo turco)finisca per inglobare sotto un’unica amministrazione curda città e regioni rimaste finora separate – una volta liberatosi dell’ISIS, oggi in forte difficoltà. Il “corridoio” sarebbe un lungo territorio a cavallo del confine: 400 chilometri dal “cantone” di Kobane-Jazira fino a quello di Afrin, vicino al Mediterraneo.
Il cosiddetto Rojava – o “Kurdistan occidentale” – sarebbe così in mano a quella che sia la Turchia, sia gli USA, sia la UE riconoscono come organizzazione terroristica: da qui il nome di “corridoio del terrore” adottato da Ankara. Se il Rojava diventasse autonomo da Damasco, la Turchia perderebbe quasi del tutto la sua continuità geografica con la Siria. Se lo staterello in questione raggiungesse un’indipendenza di fatto, il sogno dell’unità di tutte le popolazioni curde, comprese quelle di Turchia, avrebbe una spinta significativa.
L’operazione Fırat Kalkanı è cruciale anche per altri motivi. Servirà per testare i rapporti tra la Turchia e l’alleato americano, dopo una lunga fase di divergenze e incomprensioni; e per valutare le capacità operative delle forze armate turche dopo il golpe fallito del 15 luglio. In realtà, Ankara ha proposto da anni la creazione di una zona cuscinetto nell’area compresa tra Jarabulus a oriente e Azez e Marea a occidente, estesa per circa 100 chilometri in lunghezza e profonda circa 45.
Sembrava che Turchia e USA avessero preso una decisione un anno fa, al momento dell’apertura alle forze della coalizione anti-ISIS della base turca di Incirlik: ma il governo turco, nonostante le pressioni americane per un intervento diretto in Siria, è sempre stato restio a “fare da solo”, mentre proposte di azioni condivise non sono mai arrivate. I programmi per questa zona, molteplici, sono sempre gli stessi: eliminare l’ISIS isolandolo dai contatti col mondo al di fuori della Siria; insediarvi basi per addestrare i “ribelli moderati” dell’Esercito siriano libero (Esl); accogliervi vecchi e nuovi rifugiati siriani – anche alcuni che ora si trovano in Turchia – in nuovi campi. Tutto ciò, per l’appunto, impedirebbe la nascita del Rojava.
Lo “scudo dell’Eufrate” non è in effetti un’iniziativa unilaterale, ma un’operazione congiunta tra la Turchia e l’Esl: l’artiglieria e l’aviazione turche hanno martellato all’alba del 24 agosto le posizioni jihadiste, le milizie dell’Esl – circa 2500, turkmeni e sunniti – hanno passato il confine accompagnate da unità corazzate di Ankara e sono poi entrate a Jarabulus, già svuotato dalle forze dell’ISIS in ritirata. Forse è un caso, ma il 24 agosto è una data simbolica per la Turchia: l’anniversario della battaglia di Marj Dabiq del 1516, quando il sultano e condottiero Selim I che sconfisse i mamelucchi e conquistò proprio la Siria.
La tempistica dell’intervento turco è però essenzialmente pragmatica: le Forze democratiche siriane (Fds), composte in prevalenza da milizie curde dello Ypg e sostenute anche militarmente dagli USA, il 12 agosto hanno strappato all’ISIS la città di Manbij, crocevia della regione subito a sud di Jarabulus. Come conseguenza, i jihadisti sono stati spinti verso nord – e il 20 hanno messo a segno l’attacco di suicida di Gaziantep, grande centro turco presso il confine, con oltre 50 morti. Inoltre, conquistata Manbij, lo Ypg ha iniziato a muovere su Jarabulus, nonostante le rassicurazioni americane che le forze curde si sarebbero ritirate. Sia Manbij che Jarabulus si trovano infatti a est del corso dell’Eufrate. Il fiume, secondo Ankara, è la “linea rossa” il cui superamento da parte dei curdi avrebbe comportato risposte durissime; se anche Jarablus finisse in mano curda, il corridoio temuto dai turchi sarebbe praticamente saldato. Il tutto mentre il Pkk continua a compiere attentati nel sud-est della Turchia.
Sempre lo stesso 24 agosto, il vice presidente americano Joe Biden è arrivato ad Ankara per una visita già prevista, con l’idea di mostrare solidarietà (per quanto un po’ tadiva) a Erdoğan dopo il golpe mancato e provare a ricucire i rapporti compromessi proprio dagli eventi drammatici del 15 luglio. Al di là delle teorie complottiste che vedono nella Cia – o addirittura in alcuni settori dell’amministrazione Obama – gli istigatori del colpo di Stato, negli Usa vive Fehtullah Gülen che è a capo del movimento eversivo responsabile del golpe e di cui – finora invano – i turchi chiedono a gran voce l’estradizione. Ankara è ancora scioccata e scottata dalle dichiarazioni neutrali, senza una chiara presa di posizione, da parte del segretario di stato John Kerry alla notizia del golpe. Si è convinti che, come avvenuto per al-Sisi in Egitto, gli USA avrebbero riconosciuto chiunque avesse prevalso.
In ogni caso, Biden ha mostrato un esplicito apprezzamento per l’intervento contro l’ISIS, e ha pubblicamente dichiarato la contrarietà degli Stati Uniti a una presenza dello Ypg a ovest dell’Eufrate. Ma, come detto, nonostante le dichiarazioni del Pentagono il ritiro delle forze curde non si è materializzato: e anzi, Esl e unità di supporto turche da un lato e Ypg dall’altro hanno scambiato più di qualche volta il fuoco, col risultato pratico che truppe addestrate dalla Cia (l’Esl) si sono scontrate con i curdi sostenuti dal Pentagono. Una situazione paradossale che dà l’idea della complessità della situazione siriana. Nel frattempo, le milizie sostenute da Ankara e l’esercito turco stanno consolidando l’area in cui sono penetrate: il 2 settembre hanno preso Al-Rai, puntando a congiungere Jarablus con Azaz. L’obiettivo successivo è invece Al-Bab: roccaforte dell’ISIS sulla strada tra Manbij e Aleppo, nel mirino dello Ypg nonostante sia decine di chilometri a est dell’Eufrate – la “linea rossa” turca.
Fırat Kalkanı è stata possibile solo in virtù della riappacificazione tra Erdoğan e Vladimir Putin, dopo la crisi scatenata il 24 novembre 2015 dall’abbattimento di un jet russo al confine turco-siriano. C’era già stata una lettera turca di scuse, poi il golpe ha accelerato il riavvicinamento: Putin è stato tra i primi a chiamare per offrire sostegno incondizionato a Erdoğan, che ha compiuto proprio in Russia la prima visita ufficiale dopo il 15 luglio.
Ankara ha incassato il via libera non solo di Mosca, ma anche di Teheran e – indirettamente – perfino di Damasco: dopotutto, l’integrità della Siria minacciata dal “progetto Rojava” è un obiettivo comune. Ci s’interroga però sulla possibile contropartita. Non dimentichiamo che fino a poco tempo fa la Turchia era intenzionata a disfarsi del dittatore siriano Bashar al-Assad, nella nuova Siria che sarebbe emersa dalla guerra civile. Ora, il premier turco Binali Yıldırım dice che la Turchia non chiede più la sua esclusione da future formule politiche: un passo avanti deciso verso le posizioni russo-iraniane, sebbene Ankara non abbia ancora accettato che Assad conservi un ruolo centrale dopo la fine del conflitto. D’altra parte, la zona cuscinetto di Jarabulus servirà per rafforzare l’Esl, che seppure indebolito conserva come obiettivo primario la caduta del presidente siriano. Cos’ha offerto Erdoğan – o accettato – il 9 agosto a San Pietroburgo durante il suo incontro con Putin? Si capirà nei prossimi mesi.
In ogni caso, Ankara ha riconquistato quello spazio di manovra che si era ristretto a causa dei dissidi con Mosca, e ha dimostrato capacità di agire anche autonomamente da Washington. Lo ha fatto anche grazie alle proprie forze armate, uscite senza gravi conseguenze dal trauma del colpo di Stato fallito.