Sono passati poco più di tre anni dalle elezioni che nel 2008 videro la tranquilla riconferma di José Luis Rodríguez Zapatero a presidente del governo di Spagna, ma in questo breve lasso di tempo le coordinate che guidavano la politica del paese iberico sono davvero cambiate. Il paese che il 20 novembre si recherà alle urne per scegliere il nuovo parlamento, e quindi il nuovo premier, sta vivendo una trasformazione che per la sua portata è accostata da molti osservatori al periodo di transizione che la Spagna attraversò nel passaggio dalla dittatura alla democrazia alla fine degli anni Settanta.
La campagna elettorale è già in corso in maniera sotterranea da molti mesi. Il Partido Popular (PP), dopo sette anni di opposizione, appare avviato ad ottenere la maggioranza assoluta dei seggi: le amministrative di maggio, in cui il PP si è imposto in tutto il territorio nazionale, hanno visto il passaggio a destra delle regioni meridionali – tradizionali roccaforti socialiste – e lo spostamento del voto delle province galiziane, basche e catalane verso i partiti nazionalisti.
Il candidato Mariano Rajoy è alla sua terza sfida per la presidenza del governo. Scelto personalmente da José Maria Aznar come successore alla segreteria, è riuscito però solo negli ultimi due anni a imporre la propria identità al partito: un’immagine che vuole essere seria, moderata e rassicurante. Nel PP infatti non manca una forte componente radicale e ideologizzata, piuttosto forte nella regione di Madrid, che trova la sua ispirazione in alcune correnti del Partito Repubblicano americano: le posizioni estremiste dei suoi esponenti, ora meno evidenti, sono state in passato utilizzate con successo dai socialisti per caratterizzare il PP come un partito ultraconservatore e intollerante.
Proprio il Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE) attraversa un momento molto delicato: un’eventuale pesante sconfitta alle elezioni politiche potrebbe trasformarlo stabilmente nella forza minoritaria del bipartitismo spagnolo. L’aggravarsi della crisi economica (la disoccupazione non accenna a scendere sotto il 20%, livello attorno al quale si trova da venti mesi) e una gestione abbastanza maldestra hanno distrutto l’immagine di Zapatero, un tempo molto popolare anche al di fuori dei confini spagnoli: il premier si è visto commissariare, oltre alla gestione economica del governo da parte della BCE, anche il partito, tornato sotto il controllo del gruppo che fa riferimento all’ex premier Felipe González.
La generazione di trentenni e quarantenni che era stata promossa al potere ha dovuto subire la scelta di candidare alle politiche Alfredo Pérez Rubalcaba: l’attuale ministro dell’Interno, di dieci anni più vecchio di Zapatero, è considerato dai baroni del PSOE più consono ad affrontare con fermezza la gravità della situazione. Questa decisione non ha avuto l’effetto sperato sui sondaggi, ma ha almeno calmato la pressione dei mercati sul paese.
Anche fuori dal Palazzo si respira aria nuova. È stata la Spagna a battezzare il movimento ormai transnazionale degli indignados, che ha esordito a Madrid in maggio con l’occupazione della Puerta del Sol, riscontrando la simpatia dell’opinione pubblica. Molti infatti, anche se lontani dalle rivendicazioni più radicali, hanno condiviso la critica ai due principali partiti, accusati di corruzione e incapacità, facendo temere un’ondata di antipolitica. Gli indignados torneranno in piazza il 15 ottobre, nel frattempo però la pressione interna è diminuita: se le dimostrazioni di maggio avevano preso di mira principalmente le sedi del potere politico spagnolo a tutti i livelli, oggi l’internazionalizzazione della protesta canalizza il dissenso soprattutto verso le grandi istituzioni finanziarie. È un mutamento di prospettiva che Rajoy e Rubalcaba accolgono con sollievo.
Chiunque dei due sia il prossimo inquilino della Moncloa, dovrà vedersela con una situazione economica ancora molto negativa. Sotto l’occhio vigile dell’Unione Europea la spesa pubblica è già stata ridotta in modo drastico. Ma da questo punto di vista il peggio deve ancora arrivare. Popolari e socialisti continuano a rinviare la presentazione del programma elettorale, spaventati dall’effetto che potrebbe provocare l’annuncio dell’ennesima serie di tagli.
Hanno invece approvato, in parlamento, una riforma costituzionale che introduce un tetto di spesa obbligatorio per le regioni. Le regioni spagnole (Comunidades Autónomas) possono gestire in proprio un’ampio numero di competenze negoziabili, a garanzia della tutela delle varie nazionalità e identità locali presenti nel paese. Il tetto di spesa, che per essere valido dovrà essere ratificato dal prossimo parlamento, è certamente un successo per la destra, centralista per definizione – i socialisti lo giustificano invece come necessario per contenere l’indebitamento degli enti locali – ma è visto col fumo negli occhi dalle regioni dove l’autonomismo è più forte.
I partiti nazionalisti sono stati spesso l’ago della bilancia dei governi spagnoli, quando i loro seggi servivano per raggiungere la maggioranza assoluta in parlamento. Tuttavia gli elettori potrebbero dare al PP un consenso tale da liberarlo dall’obbligo di conquistarsi il loro appoggio. Ma mentre la reazione alla riforma è stata più contenuta nel Paese Basco – la regione è governata dai socialisti in desistenza coi popolari, può contare su dati economici tra i migliori del paese, sta avviando alla chiusura il capitolo del terrorismo dell’ETA e insieme alla Navarra gode di uno speciale regime fiscale – è la Catalogna ad opporsi più rigidamente.
Da qualche anno all’interno della nazione catalana (un concetto dichiarato giuridicamente illegittimo dalla Corte costituzionale spagnola, ma sancito dalla quasi totalità del parlament catalano in occasione del rinnovo dello Statuto d’Autonomia nel 2005) crescono le spinte tendenti a un allontanamento dal resto del paese. Nel corso del 2010 alcune associazioni hanno organizzato un referendum per l’indipendenza, consultivo e senza valore legale, che ha registrato la partecipazione di circa un quarto degli elettori per il Sì.
Pochi mesi fa, incalzato dalla crisi che ha colpito duramente la zona manifatturiera di Barcellona e le piccole e medie imprese della provincia, il tripartito di sinistra al governo ha dovuto cedere il potere alla forza nazionalista per eccellenza: Convergenza e Unione (CiU), tornata alla guida della Generalitat dopo sette anni. CiU ha sempre rifiutato l’indipendentismo, preferendo una continuità critica all’interno dello stato spagnolo. Ma l’introduzione costituzionale del tetto di spesa (che renderebbe la Catalogna molto più dipendente dal governo centrale e incapace di gestire le proprie estese competenze), unita alla necessità di procedere a drastici tagli in settori sensibili come la sanità (che renderebbero rapidamente impopolare il nuovo governo), e il rifiuto di concedere in cambio un regime fiscale speciale come quello basco, stanno convincendo il partito dell’utilità dell’opzione indipendentista, o almeno del suo uso come minaccia nello scontro in corso col governo di Madrid.
Così, il Partito Popolare comincia ad intravedere le questioni spinosissime che dovrà affrontare quando secondo i pronostici ritornerà al governo: da un lato i tagli lacrime e sangue da portare avanti in una situazione di grave crisi occupazionale, che saranno utilizzati dal PSOE per ricompattare le sue forze ergendosi a difensore della scuola e della sanità pubblica – essendo estromessi praticamente da ogni ente di governo i socialisti non condivideranno la responsabilità dei tagli. Dall’altro, il problema ancora più delicato del riequilibrio del potere locale, che potrebbe rafforzare le forze politiche regionaliste e autonomiste presenti quasi ovunque in Spagna quando l’impossibilità di indebitarsi peserà sui bilanci dei neoeletti governi regionali, e potrebbe causare in alcune aree del paese dei tentativi di rottura dall’esito difficilmente prevedibile.