“Morsi ha sfruttato il plauso delle cancellerie occidentali. L’ultima guerra di Gaza gli è servita per attuare ciò che aveva in mente da tempo”. Così Salim Ragheb, commerciante, 35enne, uno dei numerosi manifestanti che, dallo scorso 22 novembre, sono tornati con le loro tende bianche a ripopolare il cuore di Piazza Tahrir. Mentre parla, si leva dalla folla l’urlo-simbolo delle rivolte arabe: “Erhal, Erhal”, “vattene, vattene”. Poco meno di due anni fa era indirizzato all’ex dittatore Hosni Mubarak, e oggi prende di mira il presidente Mohamed Morsi. Per intensità e tensione nell’aria – ma non per i numeri – le proteste di questi ultimi giorni richiamano alla mente le fasi antecedenti alla caduta di Mubarak, quando anche i più restii capirono che era giunto il momento di prendere sul serio le richieste dell’opinione pubblica egiziana. Gli ultimi accadimenti mostrano quanto fosse mal riposta tale certezza.
Il presidente egiziano, che già deteneva l’autorità esecutiva e legislativa, ha tentato di neutralizzare il potere giudiziario, cercando in questo modo di minare quell’unico strumento che – pur affetto da limiti evidenti – è ancora in grado di bilanciare il suo ruolo quasi totalizzante. In questo senso, alcuni articoli della bozza della nuova costituzione lasciano trasparire più di un indizio. Uno dei 243 articoli che la compongono – tutti esaminati e votati, in appena sedici ore, dalla Fratellanza e dai partiti salafiti – mantiene un chiaro riferimento ai “principi della shari’a” come fonte del diritto. Un secondo prevede che i dotti islamici di Al-Azhar, l’istituzione musulmana più importante del paese, debbano essere consultati su tutte le questioni riguardanti la shari’a che non risultano interpretabili in maniera chiara: un provvedimento dai toni vaghi che, nel caso passasse il referendum confermativo previsto per il 15 dicembre, renderebbe per l’appunto marginale il ruolo della magistratura.
Tale colpo di mano rischia di portare a un inasprimento degli scontri in quanto, come ha notato Hassan Nafaa, scienziato politico dell’Università del Cairo, ogni movimento politico misurerà la forza degli altri. Se il futuro è comunque aperto a ogni ipotesi, il recente passato ha già fornito alcune risposte certe. La scelta del presidente Morsi ha avuto l’effetto di unire gruppi dell’opposizione che poco o niente hanno in comune: “Ciò che a noi non è riuscito nei due anni passati – ha notato Rami Ghanem, del Fronte nazionale per la Giustizia e la Democrazia – è riuscito a Morsi con il suo decreto”. Uno degli effetti più tangibili di questa inusuale (e forse effimera) compattezza è stata la costituzione del Fronte di Salvezza Nazionale (FSN): una nuova coalizione – composta da forze vicine al vecchio regime di Mubarak, nonché liberali e partiti di sinistra – con una condivisa ostilità nei riguardi dell’Egitto immaginato dai Fratelli musulmani.
A onor del vero, le argomentazioni fornite da Morsi nel suo discorso del 22 novembre non erano destituite di ogni fondamento; l’atteggiamento ostruzionistico mostrato dalle opposizioni – in qualche caso pretestuoso – avrebbe potuto protrarsi sine die, portando, per mezzo di una magistratura composta in gran parte da giudici nominati dal precedente regime, a un nuovo scioglimento dell’assemblea costituente. Tuttavia, la scelta del presidente di ricorrere a strumenti simili a quelli a lungo utilizzati da Mubarak per sopprimere forme di dissenso ha denotato una forzatura che è stata vissuta da molti come un momento di rottura del patto alla base della fase transitoria: fiducia in cambio di ordine e inclusione. Le sue decisioni gli sono valse l’accusa di essere egli stesso un feloul, una “residuo” della mentalità del vecchio regime: “Morsi – spiega Mahmoud al-Shahat, titolare di una farmacia adiacente a Piazza Tahrir – ha perso ogni credibilità. Non lavora per la rivoluzione, bensì per se stesso e i suoi accoliti. Proprio come Mubarak. I cinque mesi che ci siamo lasciati alle spalle hanno dimostrato che la situazione, se possibile, è peggiorata; la mancanza di cibo, la disoccupazione, la corruzione e la carenza di sussidi energetici logorano la nostra società e inoltre, sul piano politico, Morsi ha tagliato fuori gran parte dei suoi oppositori. La gente è stanca”.
Dove invece non si avverte alcuna “stanchezza” è tra i sostenitori del presidente. Basta osservare le ultime manifestazioni messe in campo dalla Fratellanza musulmana per comprendere che le iniziative di Morsi sono condivise da una percentuale non trascurabile della popolazione egiziana, milioni di persone più che mai convinte di essere dalla parte del giusto: come ha twittato in risposta alle ultime proteste Ikhwanweb, il profilo dei Fratelli musulmani, “Il 25 gennaio [2011] gli egiziani (islamisti, liberali, sostenitori della sinistra) si sono uniti per contrastare l’autocrazia, sostenuti da milioni di persone in giro per il paese; oggi siamo di fronte a diatribe politiche”.
Il punto di vista prevalente tra quanti supportano Morsi è che lo spirito della rivoluzione non possa concretizzarsi senza che le istituzioni dell’ancien régime, magistratura in primis, siano “de-mubarakizzate”. A ciò si aggiunge una manifesta diffidenza verso quelli che in Occidente sono considerati i “volti affidabili” dell’Egitto: “Mohamed El Baradei – nota Sharouk G., insegnante d’arabo presso l’istituto Arabeya – rappresenta ciò che auspicate voi in Europa, non ciò che vogliamo noi. È salito sul carro della rivoluzione senza versare una sola goccia di sudore”. Ancor prima di questi aspetti, i sostenitori dell’attuale presidente sono animati da una certezza riaffermata anche nel corso della manifestazione organizzata dalla Fratellanza sabato primo dicembre davanti all’Università del Cairo: “Voi potete contare sui media – così recitavano diversi cartelli indirizzati all’opposizione – noi su Dio”.
Al di là delle diverse posizioni, il rischio maggiore della crescente polarizzazione è che i “ragazzi del 25 gennaio”, l’anima della rivoluzione, siano così impegnati a contrastare la deriva autoritaria di Morsi da cadere nella tentazione di allearsi con forze estranee allo spirito che ha sotteso la rivoluzione. Così facendo si potrebbero creare le condizioni per un’escalation della violenza. “La guerra rivoluzionaria – notò Simone Weil nel 1933 – è la tomba della rivoluzione”.