La guerra fredda è stata caratterizzata dal ruolo centrale delle armi nucleari tattiche sia per compensare l’inferiorità convenzionale della NATO in Europa, sia per garantire l’integrazione (coupling) fra le sue difese avanzate e il deterrente centrale americano. Nessuno all’epoca metteva in discussione la credibilità della dissuasione e l’impossibilità di vittoria in una guerra nucleare. Anche Giovanni Paolo II riconobbe, nel 1982, la liceità morale della dissuasione nucleare come pilastro della pace. Gli equilibri strategici erano garantiti non solo dall’“equilibrio del terrore” (mutual assured destruction, o MAD), ma anche dall’interesse condiviso fra Stati Uniti e Unione Sovietica nel mantenere l’ordine di Yalta e il loro monopolio nucleare di fatto.
Del tutto affidabile era ritenuta, poi, la “dissuasione estesa” americana, base delle alleanze e anche del contenimento della proliferazione nucleare. Tale dissuasione rendeva impensabili grandi conflitti convenzionali ed è riuscita a mantenere la propria funzione dopo il collasso dell’Unione Sovietica e la fine della sua superiorità convenzionale in Europa. L’“equilibrio del terrore”, insomma, ha bloccato per lungo tempo la dinamica propria del “dilemma della sicurezza”, origine di gran parte delle guerre del passato.
La situazione di stallo creata dalla dissuasione reciproca ha così permesso, sin dagli anni Sessanta, accordi prima per contenere la proliferazione e i rischi di guerra per errore; poi per limitare e infine per ridurre l’impressionante numero di armi nucleari tattiche schierate dalle due superpotenze (40.000 sovietiche e poco più di 30.000 americane).
Con tali accordi e con la fine della guerra fredda è iniziata la “seconda era nucleare”. Il nucleare è stato espulso – eccetto per il contrasto alla proliferazione – dal dibattito strategico e dall’interesse delle opinioni pubbliche. Il presidente Obama ha parlato nel 2009 di un mondo senza armi nucleari. Questo pur approvando – dopo aver guadagnato con la sua fantasiosa visione il premio Nobel per la Pace – un piano di 1.300 miliardi di dollari per l’ammodernamento delle forze nucleari americane. Faceva eccezione la Russia, in cui la parità strategica nucleare con gli Stati Uniti, sancita dal New START, aveva pure un valore simbolico (anche nei riguardi del vicino cinese), offrendole l’illusione e la convinzione di essere rimasta una delle tre massime potenze mondiali. Accresceva pure, almeno implicitamente, il valore di Mosca verso Pechino: la Cina, infatti, era in netta inferiorità nucleare rispetto a Washington e potenzialmente vulnerabile a un “primo colpo” nucleare americano. Così, indirettamente, la potenza nucleare russa proteggeva la Cina rendendo improbabile il ricorso al nucleare. Per il Cremlino, inoltre, il nucleare compensava l’inferiorità convenzionale rispetto alla NATO.
Nella “seconda era nucleare” è diminuito radicalmente l’enorme numero di testate tattiche schierate in Europa nella “prima era”, con una riduzione, per quanto riguarda gli Stati Uniti, da 10.000 a 150 (con altre 90 tenute in riserva in America). Il loro ruolo è stato limitato alla garanzia del coupling con il deterrente strategico americano. La dissuasione nucleare continuava, in ogni caso, a essere la base dell’ordine mondiale liberaldemocratico e multilaterale creato da Washington dopo la seconda guerra mondiale.
LA TERZA ERA NUCLEARE. La situazione ha cominciato a mutare già all’inizio del XXI secolo, significativamente detto “postamericano”, poiché segna la fine della superiorità degli Stati Uniti e della loro disponibilità a essere i “gendarmi del mondo”. È iniziata così la “terza era nucleare”, caratterizzata dal riarmo nucleare accelerato della Cina e dal ricorso da parte del Cremlino alle minacce nucleari in Ucraina. Anche coloro che non accettano la teoria della “Trappola di Tucidide” – e cioè dell’inevitabilità di un grande conflitto armato fra Stati Uniti e Cina – ammettono che la sua possibilità sia aumentata. E questo pur essendo la “nuova guerra fredda” sino-americana basata prevalentemente sulla competizione economica e tecnologica rispetto al confronto militare: si tratta di una competizione più “ibrida” di quanto non lo fosse quella fra Stati Uniti e Unione Sovietica, e principalmente marittima, perché centrato sull’Indo-Pacifico e solo marginalmente in Europa, arrivando oggi a interessare anche l’Artico sia per le sue risorse sia come via di comunicazione. Questa guerra, però, può rimanere “fredda” solo se viene mantenuto un certo equilibrio militare, evitando in particolare errori che inneschino un’escalation involontaria.
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Le armi nucleari stanno riprendendo, quindi, l’importanza strategica che avevano nella “prima era nucleare”. La Cina sta effettuando un poderoso riarmo, mentre rimangono incerti i suoi obiettivi: secondo alcuni analisti sono politici, per conseguire l’equivalenza con Stati Uniti e Russia; secondo altri sono strategici. Non si conoscono però le vere finalità cinesi, se non quella di neutralizzare la disinvoltura con cui gli Stati Uniti contrastano gli obiettivi di Pechino nell’Indo-Pacifico, in particolare a Taiwan. La Cina mantiene la dottrina “dichiaratoria” del “no first use” e il concetto che il ricorso limitato al nucleare non possa compensare difficoltà convenzionali. In particolare Pechino non condivide il concetto russo di “escalate to de-escalate”.
La dottrina americana, intanto, è rimasta sostanzialmente quella della risposta graduale e flessibile mutuata dalla guerra fredda. Peraltro, le poche armi nucleari rimaste in Europa avrebbero solo un ruolo di coupling, non di sostegno delle difese convenzionali. Tuttavia, il presidente Trump, nel suo primo mandato, ha negato la validità di alleanze basate sul nucleare americano. Se tale concetto si traducesse in realtà, muterebbero l’ordine mondiale e la sicurezza europea e asiatica: si determinerebbero irresistibili tendenze alla proliferazione in Estremo Oriente e forse (almeno spero) anche in Europa. Del resto, parlare di autonomia strategica senza una “bomba europea” è irresponsabile, visto che sarebbe impossibile resistere a minacce nucleari del Cremlino.
Nella “terza era nucleare” è cresciuta, infatti, la propensione a utilizzare le minacce implicite o esplicite di ricorso al nucleare. Tale atteggiamento è diventato, per la Russia, una componente di una “strategia ibrida” che sarebbe ancora più pericolosa in caso di proliferazione nucleare. L’imprevedibilità che essa comporta, infatti, lascerà ampio campo alla diffusione delle cosiddette “strategie del folle”.
Non si tratta di nulla di nuovo, come indica Machiavelli, che già sosteneva la ragionevolezza di fingersi matti. Tale strategia è alla base dell’imprevedibilità e della sorpresa. In passato Noam Chomsky ha illustrato la razionalità di quella che Nixon chiamava la “madman theory” per il Vietnam, mentre un recente esempio della sua efficacia è stata la minaccia di Trump di scatenare l’inferno in Medio Oriente, qualora non si fosse giunti a un accordo su Gaza. Beninteso, l’efficacia di tale strategia dipende dall’essere presi sul serio dall’avversario e di non suscitare un effetto boomerang nelle opinioni pubbliche, propria e alleate, spaventate dalle conseguenze di quanto potrebbe accadere qualora le minacce venissero attuate. Il ricorso alla “strategia del folle” richiede, inoltre, un accentramento decisionale impraticabile nell’UE. Rimane invece possibile negli Stati Uniti dove la decisione d’impiegare la “bomba” è riservata al solo presidente, senza coinvolgimento del Congresso.
INTELLIGENZA ARTIFICIALE E ARTE DELLA GUERRA. Le armi nucleari hanno subìto, intanto, un processo di miniaturizzazione, oltre che di diversificazione e specializzazione, portando a una riduzione dei danni collaterali, specie delle ricadute radioattive, e a un aumento degli eventuali effetti desiderati (ad esempio, con le bombe neutroniche che affidano il proprio potenziale distruttivo non a effetti termici o meccanici).
Inoltre, l’intelligenza artificiale e, più a lungo termine, il calcolo quantico rivoluzioneranno l’intera “arte della guerra”, mentre già ora hanno profondi riflessi sui sistemi di allarme, di comando e controllo delle forze nucleari. In un tale scenario particolare importanza assumono, quindi, le misure per mantenere le armi nucleari sotto il controllo umano, evitando ogni automatismo degli ordini di lancio. Senza accordi rigorosi e affidabili dei sistemi di verifica sarà molto difficile resistere all’introduzione di sistemi automatici di IA nel campo dei deterrenti nucleari, per garantire la sopravvivenza del “secondo colpo”. Questa, intanto, è messa in gioco dall’aumento della rapidità e dell’efficacia con le quali potrebbe essere lanciato un attacco di sorpresa (“primo colpo”) e potrebbero essere attivate le difese antimissile per neutralizzare la rappresaglia dei deterrenti superstiti.
Lo scenario mondiale indica che la logica degli accordi sulla riduzione e limitazione degli armamenti nucleari validi nel mondo bipolare (e forse quella di accordi futuri sull’IA) debba oggi riferirsi a tre e non solo più a due attori. Si sono, infatti, modificati i rapporti di forza: la Russia ha perso la propria superiorità convenzionale e ha adottato una strategia molto simile a quella della NATO nella guerra fredda: ciò si vede anche nella propagandistica versione di fine 2024, che prevede un ulteriore abbassamento della soglia nucleare. Il tutto nella fallita speranza di spaventare l’Occidente.
In ogni caso questa scelta dimostra comunque l’importanza che il Cremlino attribuisce al nucleare tattico: la Russia mantiene operative quasi 2.000 armi nucleari tattiche, rispetto alle 240 degli Stati Uniti (B61-12 di potenza variabile fra 0,3 e 50 KT).
In parallelo, le esigenze del confronto con la Cina – che dispone di numerose armi nucleari “di teatro” a gittata substrategica, essenziali per la sua strategia A2/AD (Anti-Asset/Area-Denial) – obbligheranno gli Stati Uniti ad attivare molte armi nucleari a raggio intermedio oggi mantenute in riserva. Quanto meno verranno riattivati il programma di missile navale con testata di ridotta potenza e il cruise, sempre navale, cancellati ai tempi dell’amministrazione Biden. Non è escluso poi che l’America, per produrre i nuovi armamenti nucleari, riprenda a condurre quei test su cui il trattato del 1997 aveva cercato di porre un divieto completo.
La stabilità della dissuasione è, infine, erosa dallo sviluppo delle difese antimissili, dalla possibilità di attacchi elettronici e cibernetici ai sistemi di allertamento e di comando e controllo, nonché dallo sviluppo di nuove armi convenzionali iperveloci (ad esempio dal Conventional Prompt Global Strike americano). Anche questo contribuisce alla corsa al riarmo nucleare sia verticale (qualitativo) sia orizzontale (proliferazione).
Per ora, la stabilità della dissuasione a livello strategico fra Russia e Stati Uniti è ancora garantita dagli accordi New START, che scadono nel 2026 e che non verranno verosimilmente rinnovati. Le previste verifiche reciproche fra americani e russi sono già state sospese. Non è escluso quindi che riprenda una corsa incontrollata al riarmo nucleare anche strategico, già in pieno svolgimento in Cina e a buon punto d’attuazione in Russia, dove pur risulta che recentemente Putin abbia rallentato la costruzione di armi strategiche a favore di quella del missile Oreshnik, impiegato in Ucraina. La corsa, invece, è in netto ritardo per i tre programmi principali degli Stati Uniti: ICBM Sentinel, destinato a sostituire il Minuteman III; il sommergibile lanciamissili classe Columbia pensato per sostituire i 14 Ohio in servizio; il bombardiere B21 da impiegare al posto dei B2 in servizio da quasi trent’anni.
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Ma se per quanto riguarda la Russia e gli Stati Uniti la situazione è largamente conosciuta, rimane necessario approfondire i programmi e gli obiettivi della Cina, meno conosciuti anche per la segretezza con cui li protegge il governo di Pechino.
L’INCOGNITA CINESE. Durante la guerra fredda, la Cina era dotata di una forza nucleare molto limitata (da 300 a 400 armi) e vulnerabile, composta da missili in silos e con ridotta capacità di penetrazione nelle difese antimissili. Poteva, quindi, essere distrutta da un “primo colpo” americano. La dottrina dichiaratoria cinese era – ed è tuttora – quello del no first use nucleare, del deterrente minimo, della netta separazione delle forze nucleari da quelle convenzionali e dell’impossibilità di vittoria in una guerra nucleare. Tali concetti sono in linea con il pensiero di Mao Zedong secondo cui il popolo è il fattore decisivo in un conflitto, mentre le armi nucleari sono solo “tigri di carta”.
La situazione è mutata, tuttavia, con la decisione di Xi Jinping, nel 2018, di iniziare un grande riarmo nucleare. In questo modo la Cina vuole divenire una grande potenza e neutralizzare la superiore capacità di deterrenza degli Stati Uniti, capacità che secondo Xi consente a Washington di muoversi con disinvoltura, specie nella questione di Taiwan, sotto la protezione del proprio ombrello nucleare.
Sempre secondo il leader cinese, il potenziamento nucleare non avrebbe lo scopo di consentire a Pechino una capacità “offensiva” di “primo colpo”, ma di realizzare un “controbilanciamento strategico”, obbligando gli Stati Uniti a essere più cauti nel contrastare le richieste cinesi.
Pechino non prevede accordi di limitazione degli armamenti, ma ha proposto che nessuno Stato schieri all’estero proprie armi nucleari (questo un mese prima che Putin schierasse in Bielorussia quelle russe), proponendo un accordo in cui tutti gli Stati si impegnino al no first use nucleare; un fatto inaccettabile per gli Stati Uniti, perché distruggerebbe il loro sistema di alleanze, e per Mosca che vede nel nucleare una compensazione alla propria inferiorità convenzionale. Un altro motivo di attrito fra Pechino e Mosca riguarda, poi, la ventilata cessione di tecnologie nucleari russe a Pyongyang, anche perché questo potrebbe rendere più probabile la proliferazione in Corea del Sud e anche in Giappone.
La Cina dispone già di una “triade strategica” (missili e bombardieri intercontinentali e sommergibili lanciamissili). Si tratta in totale di circa 400 testate strategiche cui andrebbero aggiunte un centinaio di armi a raggio intermedio, talune (DS-21D) in grado di colpire una portaerei in navigazione fino a 1.800km. Secondo la Federation of Atomic Scientists, prima dell’inizio del piano di potenziamento (1.000 testate entro il 2030 e 1.500 entro il 2035), i missili balistici intercontinentali (ICBM) della Cina avrebbero 232 testate; i sommergibili lanciamissili 72, e gli aerei 20. A essi andrebbero aggiunte le 118 testate delle armi “di teatro”.
Subito dopo l’emanazione della direttiva di Xi Jinping sul nucleare è iniziata la costruzione di 3 basi, ciascuna con 100 silos. Sono stati sviluppati, inoltre, un ICBM mobile su strada e bombe plananti da preposizionare nello spazio; la loro ridotta precisione non le rende armi di “primo colpo”, ma la loro traiettoria da sud le sottrarrebbe alle difese antimissili americane che dovrebbero essere estese dall’Alaska all’Australia. Infine, la Cina ha sperimentato armi antisatelliti e iniziato a produrre testate di bassa potenza.
Al programma viene attribuita la massima priorità, specie dopo che l’Ucraina ha dimostrato a Pechino come le nuove tecnologie favoriscano la difesa rispetto all’offesa, rendendo difficile il successo di un attacco, specie di uno complesso come si rivelerebbe quello anfibio per occupare Taiwan. Per inciso, nell’isola vengono schierate armi molto precise e a lunga gittata: protette in bunker, possono colpire tutto lo Stretto di Taiwan.
PROLIFERAZIONE E ORDINE INTERNAZIONALE. Nella “terza era nucleare”, il ruolo delle armi nucleari sta tornando centrale non solo nelle politiche di sicurezza delle grandi potenze, ma anche nelle alleanze. Aumenterà il rischio sia di una incontrollabile proliferazione nucleare sia della minaccia del ricorso al nucleare nelle strategie “ibride” degli Stati che si propongono di modificare l’ordine internazionale. Il rischio di proliferazione crescerebbe ulteriormente se divenissero poco credibili gli “ombrelli nucleari” oggi forniti dagli Stati Uniti sia in Europa sia nell’Indo-Pacifico.
In particolare, è probabile che l’Arabia Saudita e la Turchia cerchino di dotarsi di un deterrente nucleare nazionale, qualora l’Iran riesca a costruire una propria bomba. Anche la Corea del Sud e il Giappone potrebbero farlo in Estremo Oriente, in funzione non solo anticinese, ma anche nel caso in cui dovessero continuare le “gesticolazioni”
nucleari della Corea del Nord.
Anche l’UE dovrebbe dotarsi di un deterrente nucleare proprio, riprendendo l’accordo intercorso fra Taviani, Chaban-Delmas e Strauss del 1957, dopo che il disastro franco-britannico di Suez aveva fatto sorgere dubbi sull’affidabilità dell’impegno americano nella NATO. Oggi, con la presidenza Trump, tale dubbio è ancora più rilevante.
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Si tratta di passi che però renderebbero necessaria la trasformazione dell’UE in uno Stato confederale, oltre che un significativo aumento delle spese militari europee, sulla cui fattibilità è lecito esprimere grossi dubbi. Nella situazione strategica sia dell’Europa che dell’Estremo Oriente, l’Occidente deve fronteggiare l’aggressività del Cremlino e quella che potrebbe svilupparsi da parte della Cina – con attacchi limitati, ma di lunga durata, effettuati con forze convenzionali sotto la protezione dell’“ombrello nucleare” come quello avvenuto in Ucraina.
Per questo, oltre le due forme “classiche” di dissuasione (for punishment e for denial), dovrebbe essere considerata una terza forma di dissuasione: quella per “resilienza”. Uno scenario che comporta la costituzione di scorte di emergenza e predisposizioni per la mobilitazione dell’industria bellica; il tutto con l’obiettivo di rifornire sufficientemente, e per tutto il tempo e con la necessaria rapidità, un alleato aggredito.
Questo articolo è pubblicato sul numero 1-2025 di Aspenia