Fra i vari sondaggi che in questi ultimi giorni di campagna elettorale danno Donald Trump in rimonta su Hillary Clinton, quello Washington Post/Abc mostra un aspetto particolare. Una delle domande fatte al campione di “likely voters” – quelli che rispondono “sì” alla prima e basilare domanda: andrai a votare? – riguarda infatti la contrarietà al modo in cui la candidata democratica ha gestito la faccenda delle email.
Il 59% disapprova la gestione dell’affaire che è stato rinfocolato dall’annuncio dell’Fbi su nuovo “materiale pertinente” a un’inchiesta che sembrava definitivamente chiusa. Non si tratta, tuttavia, di una percentuale più alta di quella mostrata nello stesso tracking poll di una settimana prima, quando ancora il direttore dell’Fbi, James Comey, non aveva comunicato al Congresso la notizia che ha sollevato il polverone attuale.
Perfino il Presidente, Barack Obama, con mossa irrituale ha censurato la condotta degli agenti federali. È un indizio del fatto che la resurrezione dell’“emailgate” non ha spostato radicalmente l’opinione degli elettori democratici, e dunque la rimonta percepita di Trump è la conseguenza di altri fattori.
Quali siano esattamente questi fattori è la croce di tutti i sondaggisti e gli strateghi elettorali, ma si può dire con certezza che la crescita di Trump è iniziata due settimane fa, e il pattern di sondaggi in suo favore ricalca una tendenza di alti e bassi che si è ripetuta costantemente nel corso degli ultimi mesi. L’ipotesi più accreditata è che comunque si tratti più di una crescita di Trump che di un calo di Hillary: questa interpretazione s’accorda con l’accelerata degli investimenti del candidato repubblicano, che nel giorno della notizia di Comey ha messo sul piatto altri dieci milioni di dollari per sfruttare il “momentum”, il vento favorevole.
Nate Silver, titolare del modello statistico più blasonato in circolazione, dà ora la probabilità di vittoria di Hillary attorno al 70%, numero che appare basso se paragonato a quelli di alcune settimane fa, quando si aggirava stabilmente sopra l’80%. A conti fatti, però, 70/100 è la probabilità di vittoria su cui la Clinton si è sempre attestata, il numero magico che viene fuori dalla media delle oscillazioni e dei rimbalzi che inevitabilmente caratterizzano la campagna. A maggior ragione in una stagione così emotiva e rabbiosa.
I numeri, letti in prospettiva e senza farsi distrarre dallo scorrere dei dati in tempo reale, somigliano molto a quelli che dividevano Barack Obama e Mitt Romney quattro anni fa. Quella corsa è stata a lungo raccontata come “too close to call”, e si è risolta invece con una vittoria nettissima del presidente in carica.
I sondaggi che stanno alterando la percezione dell’elettorato, facendo apparire come un testa a testa quello che a un certo punto pareva una trionfo annunciato per Hillary, sono per lo più rilevamenti nazionali: buoni per saggiare la temperatura del paese ma fuorvianti per tentare di capire chi è davvero in vantaggio e di quanto. Quello che conta sono i singoli stati e i “grandi elettori” che ciascuno dà in premio a chi prende la maggioranza (visto che quasi in tutti gli stati vige un sistema di “winner takes all”).
E se esiste una certezza in questa tornata elettorale è che Trump deve conquistare non soltanto gli stati tradizionalmente in bilico (Florida e Ohio in primis) ma è costretto a raggranellare anche quelli che sono più saldamente nelle mani democratiche. Questi compongono il cosiddetto “firewall”, la linea di resistenza che la Clinton sta puntellando per assicurarsi la vittoria anche nel caso qualcosa vada storto negli “swing states”. Si dà il caso che per varie ragioni, legate al fatto che il sondaggio politico è una disciplina altamente imperfetta, alcuni dei rilevamenti fra gli stati del “firewall” (Pennsylvania, Colorado, Michigan, Wisconsin) siano particolarmente inaffidabili, cosa che contribuisce a far calare un ulteriore velo di nebbia sui numeri e le previsioni.
Infine, non va sottovalutato un elemento tattico che potrebbe apparire illogico: anche Hillary, in questo momento, ha tutto l’interesse a dipingere la contesa come ravvicinata e incerta. Un candidato che non “scalda i cuori” come lei, tollerata più che amata anche da tanti elettori democratici, può far leva sulla paura per il demagogo Trump. Anche gli elettori che magari la disprezzano, ma che disprezzano l’avversario ancora di più, avrebbero un motivo in più per andare alle urne.