Dalla metà del 2018 Pechino ha addolcito la sua retorica verso l’Unione Europa, ma nella pratica ha concesso poco o nulla sui dossier più spinosi. L’ansia per l’andamento dei negoziati commerciali con Washington attanaglia la Cina: la postura di quest’ultima verso l’UE dipenderà in misura non trascurabile dall’esito del braccio di ferro con l’America. E questo vale anche per la nuova guerra tecnologica, che richiede la sicurezza del 5G in Europa. Se gli europei adotteranno le misure cautelative proposte da Washington (fino al bando vero e proprio di Huawei) i rapporti con Pechino subiranno un impatto negativo.
Pechino non è affatto nuova a quest’approccio combinato. L’Europa è stata vista a lungo come un mondo secondario o intermedio, non come un primo attore. È solo di recente che le politiche cinesi si sono concentrate sull’Unione: due decenni di crescita asfittica, l’eurocrisi, il fantasma della frammentazione incarnato dalla Brexit e dall’ascesa dei populismi, nonché la notevole difficoltà con cui una congerie di paesi fortemente integrati ma non federati fronteggia le capacità negoziali cinesi stanno alterando la percezione di Pechino. L’Unione Europea e i suoi Stati membri devono lavorare duro per dimostrare di essere in partita, qualsiasi essa sia.
La posizione cinese si è rafforzata dopo lo scoppio della crisi finanziaria globale del 2007 e ancor più quando questa si è tramutata in crisi europea, dal 2010 in poi. Pechino ha incrementato la sua presenza in Europa a livello bilaterale e subregionale, riuscendo con abilità ad accreditarsi come prestatore di ultima istanza nel caso della Grecia, di fatto accettando pesanti perdite sui suoi crediti verso Atene. La lista dei cambiamenti è lunga: la campagna di acquisizioni societarie da parte di gruppi cinesi, un crescente flusso turistico divenuto a sua volta strumento negoziale, la presenza di attori cinesi nell’Europa centrale e meridionale, la convergenza con la Russia di Putin su molte questioni internazionali. Tutto concorre a segnalare agli europei la pesante impronta cinese.
Ultima, ma non per importanza, la Nuova Via della Seta, che dal 2013 in poi ha sedotto molti operatori economici e leader politici europei. Resuscitando questo mito nostalgico dell’Europa ottocentesca, Xi ha toccato le corde giuste del vecchio continente. Frattanto, la Repubblica popolare ha accresciuto la sua influenza in Europa in almeno tre ambiti: gli investimenti, grazie soprattutto a fusioni e acquisizioni; il lobbismo, esercitato da un ampio ventaglio di attori statali e non; l’aperta presenza militare, con il dispiegamento navale in acque europee, a volte di concerto con la Marina russa.
Un bilancio provvisorio vede pertanto Cina ed Europa impegnate a trovare un terreno comune, specie sulle questioni globali e sui processi multilaterali dove in principio si possono delineare delle convergenze. Nel caso europeo, ciò è dettato in notevole misura dal profondo disagio per il ritirarsi degli Stati Uniti dall’internazionalismo liberale e dal multilateralismo. In misura ancor maggiore, l’interesse di Pechino per l’Europa trae largamente origine dall’offensiva protezionistica statunitense e dal rischio di veder sorgere un compatto fronte anticinese su questioni come gli investimenti e il trasferimento di tecnologia. È però arduo scorgere nuove politiche cinesi in grado di sostanziare la più conciliante retorica verso gli europei, che infatti si interrogano sempre più sul palese divario tra parole e fatti.
CINA-EUROPA, CRISI DI ASPETTATIVE (E DI CONOSCENZE). Sebbene la Cina abbia investito non poco nello sforzo di comprendere meglio gli affari europei, anche a livello di università e centri studi, gli “esperti di Europa” restano una sparuta minoranza nell’intellighenzia cinese e una frazione ancor più piccola dell’intero panorama sociale. Durante la crisi dell’euro, la stampa economica cinese esprimeva visioni assai pessimistiche, alcune delle quali echeggiavano le posizioni euroscettiche interne alla stessa UE. L’Europa era in guai seri, e i maggiori quotidiani finanziari cinesi ne vaticinavano l’imminente collasso.
Tuttavia, le opinioni non erano concordi. Mentre infatti i pochi esperti cinesi di cose europee concordavano quasi in blocco sul fatto che il mercato unico e le istituzioni comunitarie mantenevano la loro forza, gli ambienti economici cinesi erano di diverso avviso, come dimostrava appunto la loro stampa di riferimento. Uno studio condotto in base a un sondaggio del 2010 (“Chinese Perceptions of the European Union”, dal Journal of Contemporary China) mostrava come le élite economiche cinesi più istruite fossero anche le più scettiche sulle relazioni Cina-UE.
Un recente sondaggio sulle opinioni dei giovani cinesi relativamente al resto del mondo, riportato dal Global Times, mostra che il rapporto bilaterale giudicato più importante per il paese è quello con gli Stati Uniti (63,5% delle risposte), seguito da quella con la Russia (37,6%), mentre l’Europa è a grande distanza (12,7%). Il quadro contrasta fortemente con quello tracciato da un affidabile sondaggio del 2010, dove agli occhi dei cinesi l’UE staccava la Russia in termini di influenza internazionale. Ancora più indicativo il fatto che, su tredici eventi globali del 2018 che “hanno lasciato il segno”, l’Europa figura ultima (13,3%).
A plasmare l’attuale relazione bilaterale è una reciproca crisi di aspettative. Gli europei, specie l’UE come blocco negoziale, si aspettavano che le riforme in Cina progredissero di pari passo con la crescita economica, cosa che in effetti è stata prospettata a più riprese da Pechino (dalla politica monetaria agli accordi su questioni come gli investimenti e l’accesso agli appalti pubblici). Questi cambiamenti non sono arrivati, né sinora la Cina ha fatto concessioni degne di nota su norme e regolamenti inerenti la cooperazione con terze parti, specie nell’immediato vicinato geografico europeo (come gli Stati balcanici candidati all’adesione). Siccome poi retorica e pratica di Pechino sui diritti umani si sono ulteriormente allontanate da quelle europee, le principali aree di convergenza restano i flussi finanziari e commerciali cinesi in Europa: fusioni e acquisizioni, investimenti immobiliari, turismo e persino i cosiddetti “visti dorati” (quelli cioè a condizioni agevolate per i grandi patrimoni). Tutti aspetti significativi per alcuni paesi europei, ma non per un blocco con politiche unificate.
Anche da parte cinese, però, la delusione è tangibile. L’embargo alla vendita di armi e quelle che Pechino considera le connesse restrizioni al trasferimento di tecnologie sensibili sono da tempo tasti dolenti, al pari del rifiuto europeo di accordare alla Cina lo status di “economia di mercato” in seno al WTO (l’Organizzazione mondiale del Commercio). A ciò si aggiungano le lamentele per le “interferenze” europee sui diritti umani e i crescenti timori sull’apertura dell’Europa, in futuro, agli investimenti cinesi. Ma l’attitudine negoziale di Pechino non appare molto incline al compromesso. Piuttosto, è una strategia “prendi e pretendi”: arraffa ciò che puoi e chiedi il resto, nella convinzione che prima o poi l’altra parte ceda. Quando alte fonti di Pechino ti intimano di “accettare il fatto che hai a che fare con il PCC”, appare chiaro che le crescenti ambizioni di quest’ultimo rendono il compromesso un traguardo difficile per ambo le parti.
Questo articolo è in parte adattato da “China’s relations with Europe”, capitolo 13 del libro China & the World, a cura di David Shambaugh, di prossima uscita con Oxford University Press.