La Siria di domani sta prendendo forma: sarà un paese in cui la sovranità geografica non corrisponde alla sovranità politica. Infatti, lo stato siriano rimarrà, molto probabilmente, unito. Tuttavia, la presenza di zone d’influenza e di milizie controllate anche da attori esterni sta trasformando la Siria nel “Grande Gioco” del XXI secolo, nonché nel termometro delle relazioni tra le potenze regionali (Iran, Turchia, Israele, Arabia Saudita) e internazionali (Stati Uniti e Russia), che proprio qui possono confrontarsi indirettamente.
Le “zone di de-escalation” tra il regime e l’opposizione, frutto di quei colloqui di Astana (fra Russia, Iran e Turchia) che di fatto hanno esautorato la mediazione dell’Onu a Ginevra, sono la rappresentazione concreta dell’avvenuta spartizione geopolitica della Siria. Sono già stati siglati, per sei mesi rinnovabili, quattro accordi: quello di Amman, relativo al sud ovest del paese (raggiunto tra Stati Uniti, Russia e Giordania), e quello di Idlib nord, dove il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan intende dispiegare i propri militari nel quadro del patto con Russia e Iran. Gli altri due accordi di de-escalation sono mediati da Egitto e Arabia Saudita: nella zona nord di Homs e nella Ghouta orientale (periferia di Damasco).
La Siria di oggi rientra perfettamente in quel modello di “patchwork security” che si presta così bene ad analizzare il Medio Oriente contemporaneo. La sovranità statuale è in costante erosione, quindi gli assetti politici sono sempre meno nazionali e più locali: la governance della sicurezza è dunque oggetto di fragili intese territoriali ad hoc(negoziate fra una miriade di stakeholders sia interni che regionali), la cui applicazione sul campo viene affidata alla cooperazione tra eserciti (come quello siriano o russo) e alcuni attori armati non-statuali (come Hezbollah). Paradossalmente, sono quindi le stesse milizie che hanno agito da proxies durante il conflitto a fungere, adesso, da garanti territoriali della de-escalation, in uno stato tuttora formalmente sovrano come la Siria.
Il dato di fatto è che Bashar Al-Assad e il suo regime sono salvi e hanno, tristemente, vinto la guerra coniugando feroce cinismo e amicizie regionali che hanno fatto la differenza. Neppure i sauditi, ancora impegnati a unire l’opposizione siriana (le piattaforme del Cairo e di Mosca) a Riyadh, insistono più sull’uscita di scena del presidente-dittatore, trincerandosi dietro alla proposta di una “prima fase di transizione con Assad”. In ogni caso, il raís di Damasco, e il suo cerchio alawita, oggi non sono più semplici alleati di Teheran e Beirut, ma hanno un enorme debito di riconoscenza verso l’aiuto militare (e il sangue versato in battaglia) dagli alleati iraniani e libanesi. Paradossalmente, anche il tradizionale rapporto di forza tra Siria e Libano pare adesso rovesciato, con gli Hezbollah nei panni dei “pretoriani” del regime damasceno, che fu forza d’occupazione a Beirut fino al ritiro del 2005: ciò non potrà che avere ricadute sulle delicate trame della politica libanese, rafforzando ulteriormente il peso della formazione sciita.
Sul vesante iraniano, intanto, I Guardiani della Rivoluzione Islamica (IRGC, pasdaran), forza militare e anche economica, stanno già massicciamente investendo nella ricostruzione di quella “Siria utile” (come le forze lealiste chiamano Damasco, Homs e la costa occidentale, feudo degli alawiti) non solo per Assad, ma anche per gli interessi militari ed economici del regime di Teheran. Rispetto al 2011, anno d’inizio della rivolta siriana, l’interscambio commerciale fra Iran e Siria è raddoppiato, crescono gli investimenti immobiliari iraniani nelle aree a maggioranza sciita della capitale, ma soprattutto si avvia la riparazione di infrastrutture, raffinerie, rete elettrica e delle comunicazioni: una strategia simile a quella che l’Iran attuò nel sud del Libano, dopo la guerra del 2006 fra Hezbollah e Israele.
Assad è e sarà un “presidente dimezzato”: la subalternità nei confronti della volontà politica di Iran e Hezbollah è il prezzo che deve pagare per la sua salvezza, nonostante il posizionamento geografico della Siria gli conferisca sempre centralità strategica. Teheran farà l’impossibile per conservare il controllo del “corridoio sciita” che mette in collegamento l’Iran con la costa mediterranea libanese, passando per il sud dell’Iraq e della Siria: epicentro della contesa è lo snodo di Al-Tanaf tra Siria, Giordania e Iraq, dove gli statunitensi addestrano i ribelli e hanno accresciuto la loro influenza. Anche Israele guarda con attenzione a quest’area: Harakat al-Nujaba, milizia irachena controllata dai pasdaran, già attiva contro Daesh, dichiara di voler combattere Israele, al fianco degli Hezbollah, proprio dal sud della Siria, dove sta guadagnando posizioni.
La gestione del dopo-Daesh nella Siria orientale sarà fondamentale per i futuri assetti del paese: la battaglia per Deir e-Zor, così come quella per la frontaliera Abu Kamal, è appena cominciata. Qui, nell’emarginato Eufrate tribale e sunnita, l’humus di Daesh, molti fattori si intrecciano. Arabi e curdi non vogliono governare insieme, i capi tribali (in parte cooptati dal regime) sono sempre meno autorevoli agli occhi dei giovani, che hanno spesso seguito la scorciatoia jihadista. Intanto, al di là del confine con l’Iraq, la regione frontaliera dell’Anbar, culla del disagio socio-politico della comunità arabo sunnita, rimane in bilico tra insorgenza e jihadismo. Le Forze Democratiche Siriane (SDF), appoggiate da Washington e dominate dai curdi siriani, hanno annunciato la costituzione di un governo civile per governare Deir e-Zor: un passo atteso, ma che potrebbe innescare nuove rivalità e violenze, specie adesso che il referendum consultivo per l’indipendenza del Kurdistan iracheno ha ridestato le rivendicazioni separatiste dei curdi siriani. In assenza di un’adeguata rappresentanza politico-militare, i molti tasselli di questo mosaico produrranno ulteriore frammentazione e violenza.
Questa Siria, con sovranità geografica ma non politica, sarà comunque al centro degli equilibri mediorientali. E nuovi modelli di potere nonché reti clientelari sono già in formazione, su base transnazionale. Superato, in Siria, il tradizionale rapporto fra centro e periferia (poiché Damasco controlla direttamente solo i suoi feudi), si stanno invece affermando periferie scollegate dal regime di Assad, ma che sono piuttosto dei “satelliti” sotto l’influenza delle potenze regionali – alcune delle quali alleate di Damasco – legittimati dalle zone di de-escalation in cui sono in vigore i vari accordi settoriali. Dunque, soltanto sulla carta geografica lo stato siriano combacia con quello di sei anni fa.