Un colpo asciutto, all’improvviso, e un’auto, duecento metri più avanti, che sbanda e si schianta contro un muro. Un cecchino. È fine gennaio ad Aleppo. Un ragazzo, un meccanico, che è inginocchiato su un tappetino a pregare, si avventura fuori a trascinare via il ferito – anzi il morto. Fruga le sue tasche, trova una carta d’identità. Un nome: Georges. “Un nome cristiano”, dico di istinto. Si gira, severo, mi fulmina: “è solo un nome siriano”.
Come sempre, in Medio Oriente quello delle minoranze è un tema ruvido. I censimenti, in Siria, non hanno mai registrato etnia e religione. E quindi le cifre disponibili non sono che stime e approssimazioni. Perché senza dubbio gli Assad, dai tempi del padre di Bashar, Hafez, diventato presidente nel 1970 con l’ultimo di una lunga serie di colpi di Stato, sono stati soprattutto sinonimo di ordine e stabilità. In cambio della libertà, naturalmente, in cambio di un poliziotto ogni 153 abitanti: ma il Libano, qui, con le sue mille religioni e le sue mille guerre, è sempre stato un sinistro monito per tutti. Infatti, la vasta maggioranza dei siriani (il 75%) è musulmano sunnita: ma le minoranze sono ampie, e soprattutto, varie. Cristiani, alawiti, curdi – con i soli cristiani a loro volta frantumati in undici comunità.
E però la rivolta, in genere riassunta come una rivolta della maggioranza sunnita contro la minoranza alawita al potere, ha avuto altre radici. Radici economiche e sociali. Perché la Siria ha 22 milioni di abitanti, per il 60% con meno di 25 anni: e quindi decine di migliaia di laureati a cui un’economia atrofizzata intorno a un settore pubblico ormai saturo, eredità dell’allineamento all’Unione Sovietica, è stata incapace di garantire lavoro. E mentre le privatizzazioni arricchivano gli Assad e i loro amici più fedeli, e le risorse statali si prosciugavano insieme alle ultime riserve di petrolio, l’agricoltura, da cui derivava il 25% del reddito, veniva falcidiata dalla siccità: alla vigilia della guerra civile il 10% della popolazione, secondo i calcoli delle Nazioni Unite, era sotto la soglia neppure di povertà, ma di sopravvivenza – un dollaro al giorno, cioè il tempo necessario alla moglie di Bashar, nel marzo 2012 a guerra già in corso, per spendere online 330mila euro in lampade e divani.
Il regime, dunque, era semplicemente al capolinea. “Il presidente è il comandante delle forze armate, il segretario del Baath, e cioè del partito unico, è il capo dell’esecutivo. Nomina il primo ministro, il governo, i più alti funzionari civili e i più alti ufficiali militari. Nomina i giudici. L’unica vera legge, qui, è lo stato di emergenza, che consente l’arresto di chiunque sia sospettato di costituire un pericolo per l’ordine pubblico. Per questo siamo scesi in strada”, mi spiega una donna del posto. Madre alawita, padre curdo, nonna palestinese, e marito cristiano.
Gli alawiti, la minoranza sciita a cui appartiene la famiglia Assad, sono circa il 12% della popolazione. Di loro non si sa molto, perché praticano un culto esoterico, i cui libri sacri non sono pubblici, e vengono rivelati, e solo in parte, soltanto ai maschi. Un culto sincretico, con molti elementi del cristianesimo e dell’Islam sunnita: per questo sono stati a lungo stigmatizzati come eretici, e perseguitati – alawiti, in arabo, significa “seguaci di Ali”, il genero di Maometto che gli alawiti venerano più del Profeta.
Sono stati i francesi, negli anni Venti, negli anni del Mandato, a puntare sulle minoranze, secondo la più classica politica europea del divide et impera. In cerca di alleati, si garantirono la lealtà degli alawiti promuovendoli ai vertici delle forze armate. Con gli Assad, al potere militare si è saldato il potere politico e il potere economico. “Ma non ha senso definire il regime sciita, perché l’economia di Stato ha consentito agli Assad di crearsi reti clientelari di cui ha beneficiato la borghesia, che è prevalentemente sunnita”, precisa la donna che ho incontrato. Che con un PhD in letteratura araba, fa la sarta. “Non è che un regime di rapaci, questo, e l’opposizione non è che un’opposizione di poveri e esclusi. Sciiti e sunniti e cristiani allo stesso modo. Tutti si concentrano sull’Islam, adesso. Ma per capire la Siria, Marx rimane più utile del Corano”.
Resta il fatto che su circa 200mila soldati di carriera, gli alawiti sono 140mila: e sono l’80% degli ufficiali. Soprattutto, sono esclusivamente alawiti i due principali corpi di élite, la Guardia Repubblicana e la IV Divisione Corazzata, guidati da Maher, il fratello di Bashar. Ma è alawita anche Loubna Mrie, una delle più note attiviste di Aleppo.
È invece cristiano Jimmy Shininian, il più noto degli attivisti di Raqqa, primo e unico capoluogo di provincia conquistato dai ribelli, e dunque città simbolo del disastro siriano: perché nelle aree cosiddette liberate un nuovo regime, semplicemente, ha sostituito il vecchio. In Siria i cristiani, circa il 10% della popolazione, non hanno mai avuto particolari problemi – e ancora oggi, dichiararsi cristiani significa essere rispettati. Ma ora a Raqqa gli islamisti di Al-Qaeda hanno insediato il loro quartier generale in una chiesa, con la bandiera nera che svetta provocatoria dal campanile – e a Raqqa, non a caso, è scomparso il più noto dei cristiani di Siria, il gesuita Paolo Dall’Oglio. Non a caso, perché lo scontro confessionale in corso è stato importato dall’estero: dai combattenti stranieri, che non affollano solo i ranghi dei ribelli. Se i ribelli, infatti, senza gli jihadisti stranieri sarebbero stati presto travolti dall’esercito, neppure Assad senza Hezbollah avrebbe resistito a lungo. Mentre il mondo, dopo l’attacco chimico, si divideva sull’opportunità di un bombardamento occidentale, l’intervento esterno qui era già in corso da mesi.
Assad ha subito bollato le manifestazioni di piazza come terrorismo, quando ancora non circolava neppure un’arma, e ha abilmente speculato sulla paura delle minoranze di finire perseguitate dalla maggioranza sunnita – contribuendo a convertire la paura in realtà: con le sue amnistie, ha scarcerato non gli oppositori laici, ma criminali e islamisti. Contemporaneamente i ribelli, male equipaggiati e male addestrati, e senza altra alternativa, si sono affidati agli jihadisti stranieri. E il risultato è tutto nel rapporto di Human Rights Watch su un’operazione condotta ad agosto nelle campagne di Latakia, provincia alawita: attacchi pianificati e sistematici contro i civili – crimini contro l’umanità. Pochi giorni fa, in un ospedale, gli islamisti di Al-Qaeda hanno decapitato un ferito che stordito dall’anestesia mormorava versetti sciiti. Solo a testa già tagliata si sono accorti che era un combattente dell’Esercito libero.
L’unica minoranza che gioca una partita a sé, e mira all’autonomia, è quella curda, circa un altro 10% della popolazione: ma è una minoranza etnica, non religiosa, concentrata al confine con la Turchia e l’Iraq. E, come è noto, gioca una partita che non tocca certo solo la Siria.
Per il resto, “ormai non siamo che ostaggi di una guerra altrui”, mi dice un attivista di una delle ultime ONG rimaste ad Aleppo. “Le minoranze non sono solo i cristiani e gli alawiti, qui. Sono i laici, le donne, e anche tutti i sunniti che come me interpretano il Corano diversamente da Al-Qaeda. Perché se il regime vuole prendersi la mia vita, questi vogliono prendersi il mio stile di vita. Impormi come vestirmi, come comportarmi”, accusa. “Solo che non sono che 10mila uomini, da una parte e dall’altra. Al-Qaeda e Hezbollah. La vera minoranza, in Siria, sono loro”.