La Siria e noi, dieci anni dopo

L’unica certezza, è la ricostruzione. Secondo le stime dell’ONU, in Siria i danni materiali ammontano a circa 98 miliardi di euro. E nel 2020, sono stati investiti 54 milioni di euro. I lavori, quindi, finiranno più o meno tra 1.800 anni.

Per il resto, si sa poco. La Siria ormai è dimenticata. E sulla stampa, e in rete, si trova un po’ di tutto. Foto di imprenditori a cena con un ministro a Damasco, tra tappeti e argenteria, o di profughi scalzi tra le tende del Libano allagate dalla pioggia, appelli delle ONG, soprattutto per i bambini, per i 2,4 milioni di bambini che non frequentano più la scuola, e poi un video di un missile su Idlib, conferenze sui jihadisti, sulla Primavera Araba, sul ruolo degli Stati Uniti, un raid della polizia a Homs. Cantieri di grattacieli a Raqqa, la nuova piazza di Kobane. I White Helmets sul fronte del Covid-19. Non si capisce niente. Non si combatte più? Si combatte ancora? E dove? E quanto?

Un sobborgo di Damasco dopo la riconquista delle forze pro-Assad nel 2018

 

La Siria al momento è divisa in tre zone. Larga parte del territorio, e anche della popolazione, è sotto il controllo di Assad, e della Russia. Circa il 70% del paese. Solo il nord, e solo in minima parte, è sotto il controllo dei ribelli, e cioè della Turchia, mentre un po’ più a ovest, Idlib, in cui restano gli irriducibili e molti foreign fighters, più tre milioni di siriani, è sotto il controllo di Hayat Tahrir al-Sham, ossia di quella che un tempo si chiamava Jabhat al-Nusra, ossia sostanzialmente di al-Qaeda. L’est, invece, l’area di frontiera con l’Iraq, è sotto il controllo dei curdi, e degli Stati Uniti. Questa, però, è la Siria. Mentre altra cosa, ormai, sono i siriani. Nel 2010, erano 21,4 milioni. Oggi sono 11,7 milioni.

Tra morti e rifugiati, quelli in Siria sono una minoranza. E di questi, 6,1 milioni sono sfollati. E l’80% vive in povertà. Secondo statistiche, tra l’altro, pre-Covid-19. Il 50% è “food insecure”. E cioè è alla fame.

Il bilancio 2021 è di 2,2 miliardi di euro. Più o meno quanto l’Italia ha stanziato per il bonus vacanze. Ma in realtà, non è questo il dato che meglio descrive la Siria di oggi. Perché è vero che dal 2011, la spesa pro capite dello stato è diminuita del 70%. Ma ora la Siria è ai vertici delle classifiche di Transparency International per clientelismo e corruzione. L’1% più ricco della popolazione, è più ricco del 50% più povero.

Dieci anni dopo, il problema in Siria, ancora, non è la povertà: è la disuguaglianza. La Siria continua a essere gestita, più che governata, da Assad. Come se fosse proprietà privata.

E infatti, l’evento del 2020 è stato la faida tra Assad e Rami Makhlouf. Suo cugino. Che come suo padre ai tempi del padre di Assad, fa da cassaforte al regime attraverso la sua Cham Holding, a cui è riconducibile più della metà dell’economia della Siria. E che dal padre ha ereditato anche il soprannome: Mister 10%. Perché incassa tangenti su tutto. Ma ora è accusato di avere evaso tasse per 150 milioni di euro. E i suoi beni sono sotto sequestro. In questi anni, è stato essenziale. Non solo per gli aiuti umanitari distribuiti dalla sua fondazione al-Bustan, ma soprattutto per le Tiger Forces, la milizia che ha voluto e finanziato, e che ha riconquistato Aleppo, cambiando il corso della guerra. Ma al momento dell’offensiva finale su Idlib, si è tirato indietro: e Assad probabilmente ha iniziato a temere la sua autonomia. Anche perché ora, ogni centesimo gli è indispensabile. Il 2020 è stato anche l’anno in cui (il 17 giugno) è entrato in vigore il Caesar Act degli Stati Uniti. E cioè sanzioni che colpiscono 39 membri del regime, Assad incluso, ma soprattutto, anche qualsiasi impresa abbia rapporti con il regime. Di qualsiasi paese.

Il Caesar Act ha sostanzialmente fermato la ricostruzione. E quello che non è stato fermato dal Caesar Act, poi, è stato fermato dal Covid-19. E dalla crisi che ha travolto il mondo intero.

Il nome, Caesar, è quello dell’anonimo disertore dell’esercito che nel 2014 ha consegnato a uno studio legale di Londra 55mila foto scattate nelle carceri del regime, consentendo a Human Rights Watch di documentare la morte per tortura di 6.786 detenuti. Perché l’obiettivo delle sanzioni americane è che la guerra si concluda non solo con un accordo di pace: ma con verità e giustizia. Intanto, però, il processo di pace consiste in un comitato al lavoro dal 2018 su una nuova costituzione, da approvare prima delle prossime elezioni. I suoi 45 membri sono per un terzo del regime, per un terzo dell’opposizione, e per un terzo della società civile. Ma si vota in primavera: e finora, si sono riuniti cinque volte. E quanto alla verità e giustizia: in Siria, non si conosce con esattezza neppure il numero dei morti. Il Syrian Observatory for Human Rights dice 380mila, il Violations Documentation Center dice 215mila. Gli Stati Uniti dicono 700mila. Mentre l’ONU, semplicemente, ha smesso di contare.

Dieci anni dopo, cos’è rimasto di tutto questo, a parte le macerie, e i jihadisti?

Lo Stato Islamico è stato sconfitto il 23 marzo 2019 con la caduta di Baghouz. Il suo ultimo bastione. Ma secondo il generale McKenzie, che è a capo del Comando Centrale degli Stati Uniti, in qualsiasi momento potrebbe riorganizzarsi. E ricostituirsi. In quello che era il suo territorio in Iraq, restano 20mila jihadisti, e si hanno 60 attacchi al mese. Mentre in quello che era il suo territorio in Siria, non si hanno dati: perché è terra di nessuno. Ma se questo è il lascito più noto, perché più visibile, della guerra in Siria, in realtà la conseguenza più profonda è immateriale: è l’unilateralismo. Che poi è anche la conseguenza più pericolosa. Perché è causa di molto altro.

Il diritto internazionale è sparito. Nelle due guerre del Golfo, ma anche in Bosnia, in Somalia, in Ruanda, nei conflitti post-1989, l’ONU ha avuto un ruolo. Un ruolo contestato, un ruolo imperfetto: ma qualsiasi azione si misurava con il capitolo VI e VII della Carta delle Nazioni Unite. Con le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. Per alcuni anni, l’ONU ha persino amministrato il Kosovo. In Siria, invece, l’ONU si è limitata agli aiuti umanitari. Gestiti, tra l’altro, insieme al regime. E dei suoi tribunali internazionali non c’è traccia.

Al più, ora c’è la giurisdizione universale. Con indagini per crimini di guerra avviate in Germania, Francia, Svezia e Austria. Ma l’aggettivo “universale” è fuorviante: sono comunque iniziative di singoli stati. Anzi. Di singoli procuratori.

Ma ancora prima del diritto internazionale, in Siria è sparita la realtà: la realtà condivisa. Nel 2015, con l’intervento della Russia è cominciata una seconda guerra, parallela a quella sul terreno. La guerra dell’informazione. Dall’attacco chimico di Douma ai White Helmets, da Bana al-Abed, la bambina che raccontava su Twitter l’assedio di Aleppo, alle immagini di Yarmouk, e dei corpi tutti ossa dei morti per fame, tutto è diventato oggetto di mille diverse ricostruzioni, tutto è diventato una palude: in cui neppure gli esperti si orientano più. La propaganda non è un fenomeno nuovo. Ma adesso, con internet, è più una questione di over-informazione che di disinformazione. Non è più necessario convincere: è sufficiente confondere. Da presidente del tribunale dell’Aja, Antonio Cassese tornava spesso sull’importanza dell’informazione. Solo quello che viene raccontato esiste, diceva: e solo quello che esiste, può essere cambiato. E oggi, tutto viene raccontato molto più di prima. E molto più in dettaglio. Eppure, è come se non esistesse più niente.

Dieci anni dopo, il lascito della Siria è un mondo in cui ognuno va da sé. La Siria è divisa in tre zone, ognuna sotto l’influenza di una certa potenza. E dalla Libia allo Yemen, anche gli altri conflitti sono sempre più così. Incluso l’ultimo: la guerra al Covid-19. In cui al di là della retorica, nessuno, neppure per un momento, ha pensato che la cooperazione potesse essere la strategia migliore. Con le mascherine prima, e con i farmaci e i vaccini poi. Mentre tutto è oggetto di mille diverse ricostruzioni. E i morti non fanno più notizia. Sono solo un bollettino quotidiano. Sono solo numeri.

 

 

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