E’ evidente a tutti, tragicamente, che la Siria è una crisi quasi intrattabile. Una qualsiasi via d’uscita o forma di stabilizzazione e pacificazione richiede condizioni che ad oggi non si riesce a creare – e certo non riescono a crearle i presunti “nuovi padroni” della regione, cioè Iran, Russia e Turchia.
Washington, da parte sua, non può tuttavia disinteressarsi di ciò che accade, a dispetto della manifesta volontà di Donald Trump di lasciare il teatro operativo prima possibile. E non basta ricordare che la sconfitta di ISIS in territorio siriano (a lungo obiettivo principale di quasi tutte le potenze esterne) è stata ottenuta, perché intanto Bashar al-Assad rimane al potere a Damasco anche con l’appoggio esplicito dell’Iran – ovviamente un aspetto non trascurabile nella prospettiva americana.
L’uso di armi chimiche da parte del regime è certamente un’aggravante in uno scenario terribile – e dunque un incentivo a un coinvolgimento americano. Ma è una “linea rossa” auto-imposta e per molti versi irrazionale; infatti, anche i civili siriani uccisi da armi convenzionali sono morti in chiara violazione delle norme del diritto internazionale. E un attacco missilistico da parte occidentale, di qualunque portata, non cambierà gli equilibri sul terreno senza un massiccio impegno nel medio termine sia di tipo militare che diplomatico.
In Siria si manifestano dunque anche i problemi concettuali dell’approccio di Trump alla politica estera.
Il primo problema è la complessiva militarizzazione della proiezione globale degli Stati Uniti, a cui non corrisponde una visione politica coerente. L’amministrazione Trump cerca di far pesare direttamente le capacità militari americane come strumento negoziale, e ciò non è affatto strano per la maggiore potenza militare al mondo; ma la sfida, una volta messo in campo il potere “hard”, è sempre trovare un’efficace integrazione di deterrenza, prevenzione e diplomazia attiva alla ricerca di soluzioni pragmatiche. Qui si vedono gravi limiti, soprattutto se non si intende lavorare con pazienza assieme a partner e alleati. Trump ha finora optato per una deliberata imprevedibilità (salvo poi annunciare su Twitter un bombardamento, pur senza darne i dettagli), spiazzando forse gli avversari, ma anche gli alleati. La possibile azione militare coercitiva resta così isolata dal contesto politico-strategico, per cui la sua efficacia è tutta da verificare.
Il secondo aspetto problematico è il presupposto su cui poggia il “policymaking” dell’amministrazione: quando Trump prende atto dei segni di declino dell’influenza americana (in Medio oriente come altrove) o comunque degli ostacoli al perseguimento degli interessi americani, li descrive come auto-inflitti – per l’incompetenza e/o la codardia dei suoi predecessori e delle burocrazie di Washington. Promette dunque alternative radicali, in tempi brevi e a basso costo. Su questi assunti, la scelta è quella di agire in fretta e in modo muscolare. Gli annunci sono orientati al massimo dell’impatto mediatico, ma i limiti emergono al momento di produrre azioni concrete che abbiano davvero effetti risolutivi.
Inoltre, la ricerca di soluzioni rapide avviene in chiave quasi totalmente unilaterale, e senza neppure immaginare un percorso di medio periodo (che implicherebbe per sua natura costi ulteriori, vincoli, compromessi diplomatici). La sintesi di queste tendenze è una politica “mordi e fuggi”, che intanto indebolisce i legami con i tradizionali alleati, visto che a questi si chiede occasionalmente di “fare di più” ma anche di riconoscere agli Stati Uniti un diritto di partecipare oppure no, di entrare su un dato dossier e di uscirne a piacimento.
Lo slogan “America First” si può allora tradurre più o meno così: meno pazienza strategica, meno impegni multilaterali e diplomatici, più ricorso alla minaccia e potenzialmente all’uso della forza militare. In Siria stiamo vedendo in azione questa ricetta.