La sfida economica del prossimo futuro: da “Big Data” a “Better Data”

In questa nostra era delle reti, siamo ad un punto di flesso. La conversione dei modelli sociali, culturali e politici determinata dalle nuove tecnologie di rete imprime un’accelerazione che crea nuovi significati e nuovi mercati. Tutti fattori in grado di modificare (come in passato hanno fatto la scrittura e la stampa) i processi individuali e collettivi, le procedure mentali e la nostra capacità di accumulazione/innovazione scientifico-culturale. Ibridare la tecnologia e ibridarsi con la Rete sono le nuove parole d’ordine.

Perché è successo tutto questo? La risposta è nei comportamenti quotidiani di ognuno di noi: l’insieme delle intelligenze connesse in Rete ha smesso di essere considerato un semplice database, e sta diventando una “primitiva” coscienza collettiva che è possibile analizzare ancora di più ora che i social media hanno reso visibili e misurabili le relazioni personali. La nostra nuova famiglia allargata: gli amici di Facebook, i follower di Twitter e Instagram, le connessioni di LinkedIn, i fornitori di Amazon, l’ecosistema di Apple e Microsoft.

I nuovi modelli Web basati sulla comunicazione a rete, diretta e personalizzata con utenti e clienti, hanno trasformato il sistema capitalistico. Per capirlo dobbiamo spostare la visione dal processo di produzione a quello di condivisione, dal consumo razionale ma finito dei fattori disponibili (capitale e lavoro) alla creazione di reti che facilitano la condivisione della conoscenza. In un mondo in cui la condivisione è il valore fondante, bisogna pensare e agire in modo diverso: non si fa più competizione individuale, si fa competizione collaborativa in rete.

Il segreto è uno solo: quello che si sa conta molto più di quello che si ha. Ma c’è di più: è l’essenza stessa del “valore” che viene ad essere profondamente modificata perché sta cambiando un parametro fondamentale nel processo di determinazione del valore stesso: il concetto di scarsità.

 

LA WEB REPUTATION. Se, infatti, tutto il mondo è relazione, condivisione, scambio e conversazione, il prezzo non è più solo funzione della scarsità o dell’abbondanza di un certo bene o servizio, ma si determina nella loro progressiva relazione o contrattazione tra le parti e, soprattutto, nella loro reputazione.

E, dunque, la domanda successiva è la più importante: in questo mondo nuovo, di chi ci possiamo fidare? Per questo diventerà sempre più centrale il concetto di reputazione. Quando la filiera si sarà appiattita per effetto della progressiva disintermediazione operata dalla Rete, tenderanno a svanire tutti gli altri elementi che costruivano la garanzia stessa.

Una sola conseguenza: la comparazione diretta delle caratteristiche dei prodotti e dei commenti dell’intelligenza collettiva dei social media su beni, servizi e persone daranno sempre più rilievo ai Big Data generati dai social network. Nuovi indici di reputazione per creare nuovi mercati. Un mondo che si evolve verso la selezione reputazionale.

D’altra parte, il trend strategico è chiaro: i social media sono diventati lo strumento essenziale per la competitività. In altri termini, virtualmente superato da reti che, attraverso i processi di condivisione, eliminano progressivamente il concetto di scarsità nei beni e nella conoscenza, il nostro sistema economico si perpetua impiegando una risorsa abbondante, l’intelligenza umana e i suoi prodotti (dati e informazioni), per produrre scarsità di qualcosa d’altro: attenzione e fiducia continuative nel tempo, ovvero reputazione.

 

BIG DATA E SOCIAL MEDIA. E’ una nuova era: la vita intellettuale di ciascuno di noi diventa il capitale più prezioso. La frontiera tra lavoro e non lavoro tende a sfumare perché il nostro tempo, in qualunque modo impegnato, diventa valore in termini di dati.

Persone = emozioni = relazioni = contenuti = dati = conoscenza = innovazione = competizione. Ecco il nuovo paradigma che rappresenta ormai la nostra realtà concreta di tutti i giorni. Per questo le piattaforme di rete hanno tanto successo: dilatano a dismisura il nostro mondo di esperienza e tracciano nei loro server il surplus intellettuale del nostro “tempo libero”. Quello che finora era considerato solo una forma di consumo “improduttivo” attraverso cui le persone coltivavano le proprie passioni, i propri hobby, le proprie esperienze ludiche.

Ora tutto questo non è più uno spreco, ma serve per esporsi alle opportunità, anche prendendosi rischi che calcoli economici e sociali (pensate alla privacy) sconsiglierebbero ampiamente. Il surplus intellettuale (i Big Data) dei social media diventa allora una delle risorse più importanti per vincere la sfida della complessità e dei finali aperti del mondo di oggi.

E tutto questo è possibile perché la platform economy genera meccanismi di coordinamento che mancavano nelle reti precedenti, oppure erano costosi e inefficienti (come gli scambi cartacei o gli incontri fisici). I social network, invece, fanno leva sulle caratteristiche della Rete per aggregare attenzione: le adesioni sono volontarie, i contenuti sono autoprodotti, i costi di acquisizione e gestione della relazione sono sostenuti collettivamente dal network stesso. Per questo i costi dei dati sono infinitesimali.

Gli effetti economici e sociali che vengono generati sono molteplici: un grande stock di attenzione, la riduzione dei costi di produzione di contenuti generati in competizione collaborativa, la sostituzione dei tradizionali processi di ricerca di mercato con i trend di preferenze generati dal contributo dei singoli individui.

Ecco perché i social network non sono mercati frequentati da clienti, ma sistemi popolati di stakeholders, ovvero persone con interessi di varia natura che consentono efficientissime forme di mobilitazione di risorse intellettuali a bassissimo costo.

 

LA DATA DRIVEN ECONOMY. Quest’enorme disponibilità di dati è una risorsa importante per chi si occupa di meccanismi comportamentali. E questo vale sia per chi vuole analizzare il passato e le nostre impronte in termini di processi reputazionali, sia per chi approfondisce questi dati per ricavarne strumenti predittivi finalizzati ad individuare i nostri comportamenti futuri. Un orizzonte di radicale trasformazione del sistema precedente di analisi e considerazione dei dati. La crescita evolutiva di un nuovo paradigma interpretativo.

D’altra parte, se trasformazione digitale ha abilitato la raccolta sempre più assidua di dati provenienti dalla partecipazione attiva delle persone al sistema delle reti il futuro, con le connessioni 5G e 6G, vedrà un ulteriore flusso di dati che saranno generati da una quantità immensa di cose connesse attraverso sensori alla rete stessa.

Per questo, l’economia si configura sempre più in termini di “data driven economy”. Senza poi dimenticare che i Big Data sono spesso “beni pubblici”, poiché si tratta di estrazioni quasi sempre effettuate da piattaforme non rivali e non escludibili. Ad esempio, una volta che l’informazione è stata prodotta attraverso una ricerca su Internet, non solo è quasi impossibile impedirne la fruizione ad altri soggetti, ma soprattutto una singola fruizione non genera l’impossibilità da parte di altri di usufruirne.

Una simile logica di “architettura aperta” nelle potenzialità di gestione dei dati comporta una straordinaria possibilità di sfruttare economie di scala, per cui il costo medio dei dati, già relativamente basso, si riduce ulteriormente all’aumentare complessivo dei dati raccolti.

 

IL MODELLO “TRIAL & ERROR. Ed ecco perché, anche se nessuno di noi desidera effettuare scelte sbagliate, il “time to market” diventa sempre più strategico nella data driven economy per cui attendere un’informazione completa porta a ritardi decisionali e, quindi, a potenziali perdite di opportunità.

Per questo, nell’era della Rete, il modello è quello del “trial & error”. Una volta presa la decisione strategica sull’orizzonte da perseguire, bisogna essere veloci e procedere per proxy successive nella consapevolezza di dover correggere in corsa eventuali errori, e dover sfruttare a questo fine le informazioni progressivamente generate dalle stratificazioni successive dei dati.

Questa velocità, tra l’altro, risulta molto importante anche nei processi decisionali che non riguardano attività d’impresa. Della sanità in tempi pandemici sarebbe troppo facile parlare, ma anche in campo politico lo sfruttamento rapido dei dati va altrettanto utilizzato per cercare di ottenere un aumento del consenso, specie in periodi elettorali.

Un mondo straordinario fatto, però, di protagonisti inconsapevoli. Il passo successivo nell’analisi economica dei Big Data, infatti, concerne l’individuazione di possibili livelli di equilibrio che si determinano nel momento in cui i singoli individui sono chiamati a prendere decisioni in ordine alla cessione o meno di informazioni.

È raro, infatti, che le persone abbiano realmente consapevolezza di quali e quante informazioni vengano acquisite dalle piattaforme con cui entrano in contatto, ma soprattutto è quasi impossibile risalire alle tipologie di impiego da parte di chi raccoglie i dati.

 

ASIMMETRIE E CONSAPEVOLEZZE. In questo contesto, infatti, l’asimmetria informativa tra utenti e operatori è strutturale: non solo l’utente/cliente non ha a disposizione tutte le informazioni di cui avrebbe bisogno per prendere una scelta informata e razionale, ma molti dei comportamenti, per essere efficienti, presupporrebbero un grado di conoscenza tecnica che va molto al di là delle competenze diffuse tra la popolazione.

Ecco perché l’uso dei Big Data è diventato così pervasivo e si è esteso a un numero crescente di settori, anche oltre il sistema economico in senso stretto. I dati vengono raccolti e utilizzati per finalità molteplici attraverso processi e tecnologie sempre più complessi e innovativi.

In questo ambito, l’uso dei dati per fini non solo primari rende la struttura dell’ecosistema digitale profondamente diversa da quella degli altri media. Nel caso della raccolta pubblicitaria online, ad esempio, i dati vengono utilizzati non solo per la vendita di contatti (personalizzati) agli inserzionisti, ma anche per essere rivenduti, in forma grezza o con logiche di standardizzazione, per molti altri usi, spesso sconosciuti al momento della raccolta.

Sono i dati stessi, infatti, a rappresentare la principale merce di scambio degli agenti economici (utenti, operatori, trader, eccetera.), pur mancando un meccanismo che ne disciplini la formazione del prezzo in termini di scambio tra operatori e utenti.

 

DA “BIG DATA” A “BETTER DATA”. E tuttavia, la logica dell’incompletezza sul lato del pricing e dell’asimmetria nella consapevolezza degli utenti, si verifica a specchio anche nel campo degli operatori di rete. Questo accade perché i dati comportamentali delle persone non sono sempre determinanti nell’individuare trend e derive su cui costruire offerte commerciali, campagne di vendita o modelli di business.

L’esempio più significativo, a questo proposito, è quello del mix tra dati comportamentali e dati reddituali/patrimoniali. In assenza di questo incrocio a matrice, i dati comportamentali di breve e medio periodo delle persone rischiano di far emergere rappresentazioni distorte sui reali stili di vita (e, dunque, su consumi, comportamenti di acquisto e aziende target) che tali persone condividono sui social network. Chiaramente, il tema dei dati finanziari e reddituali è molto delicato in termini di privacy ma, nel contempo, si rivela strategico per le grandi piattaforme che aspirano da tempo a passare dal concetto di Big Data a quello di Better Data.

Ecco il motivo principale con cui gli analisti più attenti ai processi evolutivi del mondo dei social network spiegano la ormai costante attenzione delle piattaforme per licenze bancarie, sistemi di pagamenti, cryptovalute, stable coin e transazioni finanziarie. Per il momento, l’obiettivo strategico non è quello di “fare banca” a rendimenti economici che, essendo questo mondo digitale e fintech, avrà margini altrettanto digitali.

Il vero orizzonte che Amazon, Facebook, Microsoft, Apple, Google è quello di trasformare i loro Big Data in Better Data attraverso l’incrocio strutturale dei dati comportamentali con i dati patrimoniali e reddituali provenienti dalle attività finanziarie e che, in questo momento, sono segregati nelle banche in nome della privacy.

Non a caso, su questo tema si stanno muovendo anche le grandi banche centrali (in particolare con i processi di sviluppo delle CBDC, Central Bank Digital Currencies) al fine di governare un fenomeno sempre più invasivo che, prima o poi, dovrà vedere ripristinato l’equilibrio tra consapevolezza dei dati ceduti a terzi, e una “retribuzione” (diretta o indiretta) che supporti il meccanismo di reale ristoro economico per le persone che cedono i propri dati.

Questa è la sfida delle piattaforme e delle reti di quel futuro prossimo venturo in cui tali dati verranno analizzati da algoritmi di Intelligenza Artificiale.

La battuta attribuita a Winston Churchill è forse un po’ cinica, ma coglie nel segno per il rapporto tra dati, conoscenza e decisioni strategiche: “Statistiche? Non mi fido di tutte quelle che io non abbia personalmente manipolato”.

 

 

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