Il governo di Hong Kong non si è fatto spaventare dalle proteste quando il 28 aprile 130mila cittadini sono scesi in piazza per protestare contro la legge sull’estradizione proposta dal Consiglio legislativo (LegCo) che in sostanza avrebbe consentito alle autorità comuniste di processare nella Cina continentale cittadini residenti a Hong Kong ritenuti colpevoli di crimini gravi da Pechino). La governatrice Carrie Lam non ha tentennato nemmeno quando il 9 giugno, primo giorno di discussione della temuta norma, un milione di persone si sono assiepate davanti al Parlamento.
Quando poi, dopo la nuova protesta del 12 giugno, questa volta con circa due milioni di manifestanti nelle strade, Lam è stata costretta a scusarsi e a rinviare la discussione del provvedimento in modo indefinito, non lo ha fatto perché spaventata dall’opposizione attiva del 30% della popolazione della Regione amministrativa speciale – Hong Kong ha 7 milioni di abitanti, e due milioni erano in piazza. La governatrice ha fatto marcia indietro, nonostante l’esplicito sostegno di Pechino, perché tra quei due milioni c’era anche tutto il mondo della finanza che conta.
Raramente colossi come Ernst & Young o Deloitte o HSBC si sono schierati con gli studenti e gli attivisti pro-democrazia. Quando nel 2014 centomila persone, guidate dagli studenti, hanno dato vita al cosiddetto “Movimento degli ombrelli”, invocando la concessione da parte di Pechino a Hong Kong del suffragio universale, le grandi lobby finanziarie dell’isola hanno criticato i manifestanti perché le proteste potevanoo «paralizzare il distretto commerciale della città».
Questa volta invece hanno garantito a tutti i dipendenti che volevano opporsi al governo «orari di lavoro flessibili» piuttosto rari in una città ossessionata dalla produttività come Hong Kong, un implicito via libera per la partecipazione alle dimostrazioni. Inoltre, un centinaio di aziende ha chiuso i battenti annunciando uno sciopero generale, con il consenso della Camera internazionale di commercio, la Camera americana di commercio e le Camere europee di commercio.
I colossi finanziari di Hong Kong sono più interessati agli affari che ai diritti umani ma, almeno questa volta, i due fattori hanno finito per coincidere. Proprio la posizione assunta dalla finanza, il cuore pulsante della città, ha spinto la governatrice Carrie Lam a fermarsi. Hong Kong è il più importante centro finanziario dell’Asia, il terzo mondiale dopo Londra e New York (secondo il Global Financial Centre Index), ed è sempre stato utilizzato come ponte per la Cina continentale.
Certo, oggi la situazione è cambiata rispetto al 1997: nell’anno in cui Hong Kong è stata restituita a Pechino dal governo britannico la città produceva una quota pari al 20% del Pil cinese, contro appena il 3% attuale – cambiamento dovuto all’inarrestabile e impetuosa crescita cinese, con la quale ormai è impossibile, per una singola città, misurarsi.
Comunque, nel 2014, secondo una classifica stilata dall’Accademia cinese di scienze sociali, Shenzhen ha superato Hong Kong guadagnandosi il titolo di città cinese economicamente più competitiva. Guida la classifica da allora, ma il “porto profumato” resta comunque al secondo posto. Nonostante la sua importanza si sia ridotta negli anni, con il progressivo aprirsi dell’economia cinese, Hong Kong resta il terzo territorio al mondo per investimenti diretti.
Secondo l’Unctad World Investment Report 2018, nel 2017 Hong Kong ha ricevuto 104 miliardi di dollari di investimenti. In termini di stock di investimenti, il totale cioè del flusso di investimenti esteri presenti sul territorio al 2017, è invece al secondo posto. Il suo ruolo per la Cina resta cruciale: il 79% di tutti gli scambi offshore in renminbi avvengono a Hong Kong.
La città non resterebbe però attraente per le banche internazionali e la grande finanza se non vigesse lo stato di diritto (un intreccio tra la common law inglese e la legislazione della città) e un sistema legale robusto e indipendente da Pechino. La contestata legge sull’estradizione potrebbe erodere o aggirare, spostando i processi in Cina, proprio queste prerogative uniche di Hong Kong: anche se nessuno ha la certezza che la legge permetterebbe a Pechino di fare il bello e il cattivo tempo nella Regione amministrativa speciale, facendo arrestare e inviare in Cina chiunque ritenga un «criminale», i segnali non sono incoraggianti.
Le ultime elezioni (2016) avevano visto un exploit dei localisti democratici, ma il governo di Hong Kong viene composto soprattutto secondo logiche che premiano la vicinanza politica alla Cina. In effetti, la governatrice Carrie Lam e il suo esecutivo sono piuttosto vicini alla linea di Xi Jinping. E così, nell’ottobre del 2018, la città ha rifiutato il rinnovo del visto a Victor Mallet, Asia news editor del Financial Times, per aver partecipato a una conferenza con il rappresentante del partito localista Hong Kong National Party, Chan Ho-tin (che era stato escluso dalla competizione elettorale nel 2016 per le sue proposte indipendentiste). A cavallo tra il 2015 e il 2016, cinque librai che pubblicavano libri scandalistici sugli alti esponenti del partito comunista sono stati prelevati a Hong Kong in segreto e illegalmente da agenti di Pechino e incarcerati nella Cina continentale. Questo episodio ha scandalizzato gli abitanti dell’isola, perché per quanto Hong Kong sia già una Regione amministrativa speciale della Cina, in base al modello “un paese, due sistemi” gode di ampia autonomia legislativa e giudiziaria fino al 2047.
Le grandi lobby finanziarie non possono non guardare con preoccupazione a questi avvenimenti, sottolineando apertamente di aver bisogno che resti in vigore in pratica, e non solo in teoria, il modello “un paese, due sistemi”.
Il regime di Pechino si trova ora davanti a un dilemma. Non è un segreto per nessuno che la determinazione arrogante di Carrie Lam nell’ignorare la più grande protesta di piazza della storia di Hong Kong sia stata dettata dalla volontà di Pechino di ottenere la legge sull’estradizione a tutti i costi. Ora che Lam ha dovuto fare marcia indietro, il Partito Comunista dovrà decidere se darla vinta ai manifestanti, rinunciando per sempre alla legge e rinvigorendo probabilmente il moribondo movimento democratico, oppure se spingere la governatrice a riproporre il testo, magari con qualche lieve modifica, correndo il rischio di radicalizzare ancora di più il fronte anticinese, composto da giovani localisti e indipendentisti.
A questo proposito, quanto avvenuto l’1 luglio, in occasione del 22° anniversario della restituzione di Hong Kong alla Cina, è emblematico: non era mai successo prima che un migliaio di giovani, col volto coperto, riuscisse a fare irruzione nel Consiglio legislativo a colpi di sbarre di ferro e arieti messi a punto per infrangere tutte le barriere di sicurezza, per reclamare l’indipendenza di Hong Kong dalla Cina.
Pechino ha condannato l’azione, ritenuta una «sfida palese» al potere centrale. Anche Carrie Lam ha stigmatizzato la «violenza estrema e scioccante». Né dalla Cina né dal governo di Hong Kong è però arrivata una sia pur minima apertura sulla cancellazione definitiva della legge contestata.
A costo di danneggiare la propria economia, il presidente Xi Jinping sembra intenzionato a sbiadire i “due sistemi” per avere ben prima del 2047 “un paese” unificato anche in termini di governance. Come dichiarato a marzo dal direttore dell’ufficio degli Affari di Hong Kong e Macao, Zhang Xiaoming, «dobbiamo insistere sul principio “un paese”, pur rispettando le differenze tra i due sistemi». Nel 2017 Xi, in visita a Hong Kong, ha precisato comunque che l’autonomia della città e l’attività dei manifestanti non potranno mai superare una «linea rossa» e «mettere in discussione la sovranità cinese». Ecco perché il viceministro degli Esteri cinese, Zhang Jun, ha dichiarato alla vigilia del G20 di Osaka che non si sarebbe permesso a nessuno di parlare di Hong Kong perché “si tratta di problemi interni alla Cina e nessuno può intromettersi».
A questo punto, la rigidità del Partito Comunista rischia di far saltare in aria il modello “un paese, due sistemi”. Quando Deng Xiaoping ideò la formula era convinto che nel giro di 50 anni la Cina sarebbe potuta diventare come Hong Kong e dunque si sarebbe forse potuto verificare un passaggio poco traumatico. Xi invece si muove su altri binari rispetto al predecessore: per il presidente a vita della Cina, la stabilità del partito e l’inconfutabilità del potere statale vengono prima di tutto.