Quando parliamo di “inverno demografico”, siamo abitualmente portati a fare riferimento all’Italia, alla denatalità, all’invecchiamento della popolazione e ai numerosi problemi che ne derivano sul fronte del welfare e degli equilibri socioeconomici. Dovremmo tuttavia renderci conto che queste non sono solo prerogative del nostro paese, ma rappresentano tendenze e problematiche che riguardano sempre più il futuro dell’intero spazio europeo e che meriterebbero un ruolo prioritario nel dibattito e nelle decisioni che maturano nelle sedi dell’Unione.
QUANTO FUTURO NELLA UE? Se guardiamo all’insieme dell’UE-27, abbiamo oggi a che fare con 449 milioni di persone che hanno una prospettiva di futuro valutabile complessivamente – alle attuali condizioni di sopravvivenza – in circa 17 miliardi e mezzo di anni-vita. Un dato che si ricava moltiplicando la popolazione per fasce d’età in ogni singolo paese per la corrispondente aspettativa di vita (operando distintamente per maschi e femmine) e sommando i 27 totali così ottenuti.
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Passando dal valore complessivo (tutti i residenti) a quello individuale (pro capite), si può anche affermare che a ogni cittadino europeo spettano oggi (mediamente) 39 anni-vita residui. Di fatto, scopriamo che l’europeo medio ha davanti a sé un futuro che è inferiore al suo passato: 39 anni pro-capite a fronte dei 43 già vissuti (età media) (figura 1). La strada da percorrere risulta dunque inferiore a quella già percorsa e la cosa non è irrilevante, perché un popolo che ha un lungo futuro è più propenso a sacrificarsi, a investire, a innovare. Viceversa, se la strada rimasta è relativamente più breve si corre il rischio di sostituire all’investimento la semplice manutenzione. Perdendo occasioni di sviluppo e competitività.
Entrando nel dettaglio dei dati nazionali va osservato come in gran parte dei paesi, soprattutto nell’Est Europa, gli anni da vivere siano decisamente molto meno rispetto a quelli vissuti (figura 2). Solo l’Irlanda e, in misura minore, Lussemburgo, Cipro e Svezia non sono ancora arrivati a metà strada. Solamente i cittadini di questi quattro paesi hanno mediamente più (poco più) da vivere, rispetto a quanto hanno già vissuto. Per tutti gli altri vale il contrario. L’Italia è la settima dal fondo ma, come si vede, la criticità è presente in modo generalizzato nella quasi totalità dei membri dell’UE-27.
LE COMPONENTI DEL FUTURO. Ma come si costruisce questo futuro che ci appare pericolosamente accorciato? Cos’è che crea gli anni-vita che formano la prospettiva di futuro di un popolo? E inoltre: i 17 miliardi e 676 milioni di anni che sono stati calcolati con riferimento al 1° gennaio 2023 come vengono aggiornati nel tempo? Ad esempio, sapendo che lo stesso calcolo al 1° gennaio 2022 – svolto assumendo la medesima serie di aspettative di vita – porta a ottenere un patrimonio demografico di 17 miliardi e 642 milioni di anni di futuro, cosa ha dato luogo ai 34 milioni di incremento registrati nel corso del 2022?
Le risposte chiamano in causa le singole componenti del resoconto contabile che certifica l’evoluzione del patrimonio demografico dell’UE-27 (tabella 1). Nel bilancio ci sono, da un lato, i fattori (positivi) che generano un aumento del futuro: nasce un bambino e consegna al suo paese circa 80 anni di futuro; arriva un immigrato, spesso relativamente giovane, e regala il suo consistente futuro alla società che lo ha accolto. Sul fronte opposto, si vanno a perdere anni quando le persone muoiono o emigrano, mentre si consuma parte del nostro futuro col trascorrere della vita, istante dopo istante.
Questi sono i fattori in gioco. Ciò premesso, va preso atto che i 34 milioni di anni-vita guadagnati nel 2022, per l’insieme dell’UE-27, sono sostanzialmente supportati dal massiccio apporto netto del saldo migratorio (+165 milioni di anni). D’altra parte, se confrontiamo quanto consumato per vivere con il contributo fornito dalle nascite, ci rendiamo conto dell’entità del deficit che avremmo avuto “a frontiere chiuse”. Nel 2022 abbiamo infatti speso (per vivere) 385 milioni di anni di futuro a fronte dei 307 milioni apportati dalle nascite, e ne abbiamo persi altri quasi 54 a seguito dei decessi. Risultato finale: un deficit, senza migrazioni, pari a 132 milioni di anni-vita.
In sintesi, per il complesso dei 27 paesi possiamo dire che mediamente nell’anno 2022 ogni morte ha sottratto dal patrimonio demografico dell’Unione 10,4 anni di futuro, ogni neonato ne ha aggiunti 80,3 e ogni immigrato (netto) ne ha portati 51,5 (tabella 2).
È interessante questa contrapposizione tra immigrato e neonato, perché si tratta di uno dei temi oggetto di frequente dibattito. Qual è la via con cui generare futuro? Favorire la natalità? Incentivare l’immigrazione? O semplicemente una appropriata composizione dei due flussi?
COME GARANTIRE IL FUTURO. Se abbandoniamo per un attimo il conto degli anni-vita e ci soffermiamo sugli scenari demografici previsti da Eurostat per il prossimo decennio – secondo l’approccio classico che conteggia il numero di individui e dei relativi flussi – ci si rende subito conto che, almeno nel breve periodo, la popolazione dell’UE-27 sembra destinata a rimanere numericamente stabile. Nel corso del decennio 2024-2033 si prospetta la perdita di poco meno di un milione di persone (tabella 3): l’inverno demografico non sembra dunque particolarmente rigido.
Se però proviamo a tradurre i flussi di persone in termini di anni di futuro le cose sono assai diverse. Tenendo conto, in base ai parametri considerati in precedenza (si veda la tabella 2), di quanto proviene da ogni nascita e da ogni migrazione netta, nonché di quanto viene portato via da ogni morte e consumato vivendo, il conto globale, nel decennio 2024-2033, è ben diverso: c’è una perdita netta di 724 milioni di anni di futuro (tabella 4).
In dettaglio, il contributo dei nati sarà pari a 3.166 milioni di anni-vita, mentre ciò che verrà consumato vivendo sarà pari a 3.894 milioni. Se aggiungiamo che altri 526 milioni di anni-vita verranno persi per effetto della mortalità, è evidente che anche in questo caso il contributo dell’immigrazione avrà un ruolo determinante.
D’altra parte, le stesse previsioni di Eurostat, basate sul numero di residenti e sui relativi flussi (nascite, morti e migrazioni), sottolineano come l’immigrazione sia fondamentale negli scenari di medio e lungo termine nell’orientare la direzione della crescita. Senza immigrazione l’Unione perderebbe circa 100 milioni di residenti nell’arco di mezzo secolo, mentre con un suo sostanziale contributo – quella che Eurostat propone come “ipotesi migratoria alta” – si manterrebbe una certa stabilità nel numero di abitanti. Va da sé che, anche al di là del dibattito su “quanti immigrati”, il principio di un’immigrazione che sia regolamentata – e non subìta – andrebbe comunque affermato e condiviso in ambito europeo come irrinunciabile.
In conclusione, se torniamo a riflettere su quell’ammontare di futuro che UE-27 sembrerebbe destinata a perdere già nel corso di questo decennio, come potremmo recuperare i 724 milioni di anni-vita che ci mancheranno entro il 2033?
In base ai parametri definiti dal bilancio del 2022 avremmo due possibilità. La prima è acquisire nei dieci anni (2024-2033) 14 milioni di immigrati in più (rispetto ai 10,3 milioni già conteggiati nella previsione di Eurostat): con il loro apporto unitario di 51 anni compenseremmo il deficit. In alternativa dovremmo fare in modo che si registrino 9 milioni di nati in più (oltre ai 39,4 milioni già previsti), capitalizzando il loro apporto di 80,3 anni pro capite.
NASCITE O IMMIGRAZIONE? Ma allora, qual è la risposta alla domanda che ci si era posti inizialmente: nascite o immigrazioni? Le une o le altre? Ragionevolmente la risposta non può che essere “entrambe”. Sia per motivi “tecnici” di funzionalità, sia per considerazioni legate alla realtà del nostro tempo e alle valutazioni di ordine politico, economico e culturale del mondo in cui viviamo.
Riguardo alla funzionalità prendiamo ad esempio il caso italiano. Secondo i parametri di sopravvivenza del nostro tempo, per ogni neonato che entra a far parte della popolazione va messo in conto orientativamente un primo ventennio per la stagione della formazione, cui seguono circa 45 anni di vita lavorativa – almeno potenziale – quindi altri 17 anni in quiescenza. Quando invece arriva un immigrato, mediamente la sua fase di formazione dura due anni (in gran parte è già stata assolta altrove), lavora per 33 anni (quindi 12 in meno rispetto al neonato) ma con una aspettativa di vita da pensionato che mediamente è identica (17 anni). Di fatto, possiamo dire che il neonato lavora più a lungo, quindi produce di più, ma inizia più tardi; mentre l’immigrato produce per meno tempo, ma è in grado assai prima di essere operativo entro il sistema produttivo (figura 4).
Al tempo stesso, va messo in conto che mentre, da un lato, i flussi migratori sono (e ancora più saranno) inevitabili e l’obiettivo non potrà che essere quello di regolarli in funzione della capacità di integrazione e valorizzazione, dall’altro va considerato che l’attuale insufficiente ricambio generazionale non può essere accettato passivamente come fatto scontato, tendenza inarrestabile, se non al prezzo di profondi cambiamenti difficilmente governabili.
IL RUOLO DELLA POLITICA. La denatalità che imperversa nell’UE-27 con livelli differenti dal 2008 – e vede nell’Italia il classico “fanalino di coda” – ha sino a ora spinto alcuni paesi verso politiche orientate, di volta in volta, a interventi sul piano economico (contributi monetari, privilegi fiscali, supporti abitativi, ecc.), così come su quello della cura e della conciliazione dei tempi (famiglia e lavoro), ma con azioni poco incisive in quanto spesso occasionali e condizionate da fattori contingenti (scelte politiche e limiti di bilancio).
Non a caso l’analisi della correlazione tra alcune misure a supporto della natalità adottate nei paesi dell’Unione e il corrispondente effetto sul livello di fecondità offre risultati alquanto sconcertanti. Il numero medio di figli per donna – misura sintetica della fecondità nell’ambito di una popolazione – non sembra infatti risentire significativamente né dei trasferimenti monetari, né delle agevolazioni sul piano della cura e della conciliazione.
Il fatto è che l’efficacia non può derivare da singoli interventi, ma da un complesso di azioni integrate capaci di coinvolgere i diversi attori (lo Stato, le amministrazioni locali, il privato sociale, il sistema delle imprese), ma anche di alimentare un clima culturale amichevole e gratificante verso le scelte familiari e riproduttive.
UN PROBLEMA EUROPEO. In ultima analisi, il chiaro messaggio dei dati statistici è che il problema demografico non è solo italiano, bensì europeo. E va dunque affrontato a livello europeo, indirizzando le politiche dei diversi paesi verso un obiettivo comune, integrando e valorizzando anche scelte e specificità locali.
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Inoltre, andrebbe condiviso il principio secondo cui l’equilibrio demografico è indubbiamente anche un fattore di tutela ambientale. Poiché lo spopolamento indebolisce e toglie dalla scena proprio chi dovrebbe poter operare per la conservazione dell’ambiente e della biodiversità. Le politiche demografiche – e i relativi investimenti – andrebbero pertanto considerati argomenti da includere nell’agenda “green”.
Siamo ormai consapevoli che l’attenzione alla demografia non è una strategia marginale e rinviabile. È una scelta centrale e irrinunciabile nel panorama dell’UE-27, in quanto rappresenta la premessa per garantire la qualità della vita, tanto ai cittadini dell’Europa di oggi, quanto alle nuove generazioni che la terranno in vita e daranno vigore all’Europa di domani.
Questo articolo è pubblicato sul numero 3-2024 di Aspenia