La Serbia al voto: se il presidente Vucic perde la maggioranza

Domenica 17 dicembre i serbi votano alle ennesime elezioni anticipate per rinnovare il parlamento nazionale, più quello della regione autonoma della Vojvodina, e per eleggere i sindaci di 60 comuni, tra cui la capitale Belgrado. La novità è che appena un anno e mezzo dopo le ultime parlamentari, vinte dal Partito progressista serbo (SNS) del presidente Aleksandar Vucic (in carica dal maggio 2017), la vittoria della coalizione di governo formata da SNS e socialisti non sembra così scontata come lo è stata negli ultimi dieci anni in cui si è votato quasi ogni anno – sostanzialmente con lo stesso risultato.

Il presidente serbo Aleksandar Vucic

 

Secondo l’unico sondaggio ad oggi pubblicato sulle intenzioni di voto – e da prendere in ogni caso con cautela – i due partiti di governo dovrebbero aggiudicarsi circa il 47% dei voti. Un dato che – secondo il direttore dell’istituto che ha condotto l’indagine – nella capitale sarebbe addirittura inferiore al 40%.

La vera sorpresa sarebbe quindi la performance elettorale dell’opposizione, per anni divisa, frammentata e senza una chiara offerta politica. La più votata dopo quella di Vucic, con oltre il 25% dei voti, sarebbe infatti la coalizione “La Serbia contro la violenza”, eterogeneo cartello che riunisce dieci tra partiti e movimenti civici di centro, di sinistra ed ecologisti. Il nome della coalizione è quello dello striscione sceso in piazza tutte le settimane in reazione alle sparatorie che a inizio maggio scorso uccisero 19 persone. Il primo massacro è avvenuto nella scuola “Ribnikar”, nel centro di Belgrado, dove un adolescente ha sparato con la pistola del padre ammazzando nove scolari e il custode dell’istituto; mentre il secondo, appena 48 ore dopo, in un sobborgo alle porte della capitale, dove un 21enne ha ucciso nove persone.

Il movimento di protesta che per mesi ha avanzato richieste alle autorità – tra cui la fine dei reality show violenti e sessisti trasmessi sulle emittenti nazionali vicine al governo – si è presto tradotto in una più generale insoddisfazione politica, sapientemente raccolta e rivendicata da quelle forze accomunate da sentimenti filoeuropei, attenti ai diritti civili ma anche all’ambiente.

A tenere la società serba col fiato sospeso per oltre un anno è stata anche la situazione in Kosovo, con l’apice della tensione toccato lo scorso 24 settembre nella cittadina di Banjska, dove un commando di paramilitari serbi ha attaccato la polizia kosovara uccidendo un ufficiale e ferendone due. Una situazione sempre più ingestibile sia a livello locale che internazionale, con l’attività diplomatica occidentale che non ha sin qui prodotto risultati concreti. Sebbene Belgrado e Pristina tra febbraio e marzo scorsi avessero accettato – ma non firmato – un nuovo accordo targato UE per rilanciare il processo di normalizzazione, da allora la situazione è addirittura peggiorata. Prima le violenze a danno dei soldati KFOR, il contingente internazionale a guida NATO, quando nei comuni a maggioranza serba si insediarono i sindaci albanesi eletti con una affluenza inferiore al 5%, perché i serbi avevano boicottato il voto. E poi il suddetto attacco presso il monastero di Banjska, nel nord del Kosovo.

 

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Tali episodi hanno aggravato la situazione a livelli non raggiunti da tempo e hanno scosso la sensibilità degli europei, anche per il timore di un altro conflitto alle porte dell’UE. E quanto succede intorno all’ormai ex provincia serba sta scaldando anche l’altra ala dell’opposizione a Vucic, divisa in due distinte coalizioni nazionaliste di destra. La più votata dovrebbe essere “Raduno nazionale”, formata dai partiti conservatori e filorussi “Dveri” e “Zavetnici”; a seguire potrebbe esserci “NADA”, formata da due partiti filomonarchici. Entrambe le coalizioni mirano a diventare un potenziale ago della bilancia in sede di consultazioni. La base del loro sostegno si è sviluppata proprio sull’opposizione agli accordi internazionali con cui la Serbia de facto rinuncerebbe al Kosovo.

Non bisogna escludere sorprese, sia in parlamento che al municipio di Belgrado, ma se i risultati dei sondaggi fossero confermati, sarebbe la prima volta da quando SNS prese il potere nel 2012 che una forza d’opposizione supererebbe il 20%. Se anche il partito di Vucic riuscisse a formare una nuova coalizione di governo, incontrerebbe un’opposizione più numerosa e galvanizzata. E soprattutto con alternative politiche più definite che in passato: da un lato dell’emiciclo chi chiede di risollevare la società serba dopo dieci anni di apatia sociale e rilanciare il percorso di integrazione europea; dall’altro chi boccia l’ondivaga politica estera del presidente, vuole avvicinarsi ulteriormente a Mosca e chiede di difendere gli interessi serbi in Kosovo.

Dal canto suo, il presidente Aleksandar Vucic – che anche in questa campagna elettorale non ha accettato alcun confronto pubblico con nessun leader dell’opposizione – potrebbe tentare di sfruttare a suo vantaggio l’eventuale perdita della maggioranza assoluta. Con altri tre anni davanti come Capo di Stato, non è da escludere una crisi istituzionale fomentata dallo stesso presidente che da anni agisce al di sopra della costituzione, esautorando de facto sia parlamento che potere esecutivo. Esempi in tal senso sono anche la genesi degli ultimi due governi, la cui fine del mandato è stata aprioristicamente decisa dal presidente il giorno stesso della loro nomina, quando sancì apertamente per quanto tempo sarebbero rimasti in carica i ministri. E lo conferma la campagna elettorale guidata in prima persona da Vucic stesso, nonostante a maggio abbia ufficialmente lasciato la presidenza dell’SNS, abusando quindi della propria posizione di Capo dello Stato in aperta violazione della costituzione.

Se l’opposizione riuscisse a formare un governo, sarebbe la prima volta che presidente e maggioranza di governo non appartengono alla stessa sponda politica. In tal caso, Vucic ha detto che si dimetterebbe dalla presidenza, ma è un’eventualità poco credibile. Qualora Vucic perseverasse in un mandato presidenziale forte e autoritario, con competenze esclusive in politica estera ma senza l’appoggio del parlamento, ciò porterebbe a una caotica paralisi istituzionale, in grado di compromettere non solo i negoziati sul Kosovo mediati dall’UE, ma anche la tenuta sociale interna.

In ogni caso, l’incognita sarà il tempo che Vucic lascerà passare per la formazione del nuovo governo. L’anno scorso ci sono voluti oltre sette mesi prima delle nomine dei ministri, nonostante SNS e socialisti avessero la maggioranza assoluta, un tempo dettato soprattutto dal contesto internazionale: Belgrado ha subito molte pressioni per adottare le sanzioni contro la Russia e per allinearsi più univocamente al campo occidentale, e ciò ha condizionato anche la formazione dell’esecutivo. Il nuovo governo potrebbe quindi nascere a primavera inoltrata, anche in virtù di consultazioni che si preannunciano difficili e dall’esito tutt’altro che scontato. Un’ipotesi da non sottovalutare, infine, è che l’impossibilità di formare una maggioranza assoluta porti a un governo tecnico che traghetti il Paese per diversi mesi prima di tornare al voto. Questa opzione offrirebbe a Vucic il tempo necessario per continuare a rimandare ogni decisione sul Kosovo e quindi prolungarne lo status quo.

La nascita del governo potrebbe arrivare in concomitanza con le elezioni europee di giugno 2024: è verosimile credere che il processo di normalizzazione tra Belgrado e Pristina non riprenda effettivamente slancio fino a quando non verrà nominata la nuova Commissione, in cui non è certo se verrà riconfermato l’Alto Rappresentante per la politica estera Josep Borrell, così come l’inviato speciale UE per il dialogo Serbia-Kosovo, Miroslav Lajcak. È anche per questo che Borrell e Lajcak, appoggiati dalla mediazione della “Quint” (il foro informale composto da Francia, Germania, Italia, Regno Unito, USA), stanno pressando tanto la Serbia quanto il Kosovo per arrivare quanto prima all’implementazione degli accordi del marzo scorso.

 

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I negoziati sono ancora arenati intorno all’ente di autogoverno dei comuni a maggioranza serba, di cui si starebbe trattando statuto e funzioni esecutive. Una questione, quella dei comuni a maggioranza serba, tanto dirimente nel futuro dei rapporti tra Belgrado e Pristina quanto sensibile a ogni episodio di violenza a livello locale: episodi sin qui spesso incentivati e abilmente sfruttati dal regime serbo a fini politici nel nord del Kosovo, anche con l’appoggio della criminalità organizzata. Una prassi che, anche in caso di sconfitta alle elezioni, sarebbe difficile da sradicare.

 

 

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