La semina dei sovranisti e la corsa agli armamenti con le parole

La sovranità statuale è il fondamento dell’attuale sistema internazionale, nella prassi di chi ha responsabilità di governo e nelle teorie politologiche sviluppate per spiegare e forse prevedere i comportamenti degli Stati. Nulla di strano, dunque, che sia un concetto molto rilevante anche in un’era di forte interdipendenza globale. Quel che invece stupisce è il ritorno a una specifica idea di sovranità, in una versione “pura” e quasi assoluta, che sul piano storico non ha mai trovato vera applicazione e raramente lo ha fatto perfino su quello teorico.

Poco importa se e in che misura la riscoperta di una “sovranità pura” sia legata al fenomeno che chiamiamo populista – spesso non lo è in modo chiaro e diretto. Il punto è che la logica politica del sovranismo porta naturalmente a ricercare nemici esterni (oltre che interni), con l’effetto di innescare un circolo vizioso di recriminazioni reciproche tra i leader.

“L’Europa della pace perpetua”, ossia la trasformazione dei paesi europei in spicchi di uguali dimensioni, per evitare le conseguenze nefaste del nazionalismo e del potere degli Stati, immaginata da P. A. Maas all’indomani della Prima Guerra Mondiale.

 

Lo si è visto in varie occasioni recenti, ad esempio quando Donald Trump – ovviamente via Twitter – ha accusato il governo francese di meritarsi le proteste dei “gilet gialli” per aver tentato di imporre una tassa sui carburanti. Una scelta che, secondo Trump stesso, sarebbe legata agli impegni presi con l’aborrito accordo di Parigi del 2015 contro i cambiamenti climatici. Il Ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, ha così risposto:

Je dis à Donald Trump […]: nous ne prenons pas partie dans les débats américains, laissez-nous vivre notre vie de nation“.

E’ opportuno sottolineare l’esortazione finale, proprio nella scelta dei termini: “ci lasci vivere la nostra vita di nazione”. In altre parole, si potrebbe dire, nazionalismo chiama nazionalismo. Si è trattato, in sostanza, di una reazione magari un po’ scomposta a un’intrusione molto scomposta (americana) in una dinamica delicatissima di politica interna (francese). E’ soprattutto la manifestazione di un guaio intrinseco al sovranismo: questo atteggiamento politico tende, paradossalmente, a invadere il campo del sovranismo altrui. E’ come se i confini degli Stati fossero mutuamente riconosciuti ma non vi fosse reciprocità nel fissare i confini della retorica politica. La durezza dei toni deborda e attraversa le frontiere.

Quello dell’ennesimo tweet di Trump e della replica francese non è affatto un episodio isolato, ma piuttosto uno tra molti altri del genere.

Un caso di interesse quasi psicanalitico è stato quello del governo di Theresa May, che si è detto offeso e sorpreso, negli ultimi mesi, di scoprire che gli altri membri della UE hanno preso a considerare Londra come una controparte “esterna” con cui negoziare duramente un vero divorzio. E’ davvero bizzarro che vi sia stata sorpresa, visto che di divorzio si sta parlando, dopo mesi di attacchi britannici e (da parte di molti Brexiteers) perfino veri insulti rivolti all’Unione Europea. Certo, il realismo richiede uno sforzo pragmatico per salvare il salvabile nei rapporti tra le due sponde della Manica, e questo è chiaro anche a Bruxelles; ma forse Londra (con ciò indicando l’intero establishment) avrebbe potuto ammorbidire i toni prima, e non solo dopo, il fatidico referendum del 2016. E’ arduo pretendere uno stile negoziale pacato in nome di un’antica amicizia tra popoli, dopo aver gestito una consultazione nazionale come una vicenda totalmente “sovrana”.

Del resto, ai britannici è stata somministrata la loro dose di medicina amara anche per mano di Trump, che da ottimo alleato “prefenziale” della Global Britain (finalmente libera dai lacci europei) ha dato tutto il suo appoggio (non richiesto) alla hard Brexit, consigliando perfino al premier May di citare Bruxelles per danni. Un consiglio che è stato elegantemente ignorato – se non altro per la mancanza di un organismo al quale chiedere danni di alcun tipo che, ironia della sorte, sarebbe presumibilmente una qualche corte internazionale multilaterale.

In tono più serio e articolato, il Ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas ha dichiarato più volte – con chiarezza inusitata per un leader tedesco – che ormai gli europei non possono più fidarsi della garanzia di sicurezza americana, e devono dunque dotarsi di strumenti autonomi. Questa presa di posizione va letta in combinato disposto con la spinta crescente anche da parte francese per qualche passo avanti sull’integrazione – o quantomeno la progressiva aggregazione – delle forze armate europee.

Sulla falsariga di Theresa May rispetto ai fastidiosi ex-partner continentali, Trump si è così molto piccato a fronte dell’ipotesi (peraltro priva di fondamento) che un futuro “esercito europeo”, auspicato in modo vago da Emmanuel Macron e pochi altri, possa avere come avversario proprio l’alleato americano. Lo stesso vecchio alleato, peraltro, che per bocca (e soprattutto per smartphone) dell’attuale presidente ha indicato la NATO come un’organizzazione obsoleta e i suoi membri europei come un inutile fardello per gli Stati Uniti.

Una peculiarità dei sovranisti è che intendono l’autonomia del proprio Stato (anche se solitamente lo definiscono “nazione”, concetto assai più sfuggente) come assoluto; non una questione di gradi ma di principio, dentro o fuori, noi e loro. Il che non si presta facilmente a compromessi con altri Stati, e meno che mai con altri sovranisti. Abbiamo visto in azione questa dinamica al G20 di Buenos Aires (30 novembre-1° dicembre), dove la rivalità USA-Cina ha dominato la scena. Soprattutto grazie all’approccio adottato da Washington con le sanzioni commerciali contro Pechino, la dialettica è stata tutta bilaterale, rendendo più difficile cedere terreno sia per Donald Trump che per Xi Jinping. E’ chiaro infatti che “America First” si contrappone in questo caso a una politica industriale – e ormai a una politica estera complessiva – che potremmo sintetizzare in “China First”. Il duello è andato in scena in Argentina mentre arrivano segnali di un rallentamento dell’economia mondiale, per cui le prossime decisioni “sovrane” andranno prese in un contesto meno favorevole di quello attuale. Non dimentichiamo una delle lezioni della più recente crisi globale: nonostante la naturale e comprensibile tendenza a confidare anzitutto nell’azione dei governi nazionali per trovare soluzioni di emergenza, un certo livello di coordinamento internazionale è stato molto utile per ammorbidire alcuni effetti della recessione e abbreviarne il decorso. Il G20, che è apparso quasi impotente a Buenos Aires, era nato proprio a questo scopo.

Come si vede, i semi del sovranismo crescono in molti campi simultaneamente, e nessuno sembra sapere come fermare la loro diffusione una volta che siano in circolazione e comincino a germogliare.

I leader politici usano da sempre la retorica come un’arma potente; dovrebbero però ricordare che anche i loro omologhi sono armati e che a volte, perfino tra vecchi alleati, si scatenano corse agli armamenti difficili da fermare. Forse parte del problema sta altrove, in quella piccola schiera di consulenti della comunicazione che gestiscono o indirizzano i pensieri dei loro capi. La comunicazione frequente, informale e spicciola che è tipica dei social media acuisce chiaramente il rischio di escalation retorica. Chissà se quei personaggi così influenti, i nuovi “consiglieri del principe”, conoscono bene la storia e sanno come funziona una corsa agli armamenti.

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