Donald Trump ha lanciato la campagna per la rielezione nel 2020 promettendo, fra le altre cose, di sconfiggere il cancro, di debellare l’Aids negli Stati Uniti e di mandare il primo uomo su Marte entro la fine del secondo mandato. Il presidente rivendica di avere reso l’America grande dopo nemmeno tre anni di governo, e ora rilancia con un programma di sconfinata vastità per tenere alta l’asticella delle aspettative. Per paradosso, lo slogan della campagna è “Keep America Great”, dove il verbo “keep” parla di mantenimento e gestione di un corso già avviato, senza la forza propulsiva di una rivoluzione. Dunque, dando per scontato un primo mandato di successo.
Il presidente ha presentato ufficialmente la ricandidatura il 18 giugno da Orlando, in Florida, di fronte a un’arena da ventimila posti stracolma di sostenitori urlanti, un promemoria del fatto che l’entusiasmo della sua base non solo non è scemato, ma si è accresciuto durante due anni e mezzo in cui Trump ha coltivato ossessivamente la forma del comizio e dell’adunata popolare. I sondaggi più citati dicono che Trump è il presidente con il livello di popolarità più basso di sempre, non avendo mai sfondato la quota del 50% nei rilevamenti sul consenso all’operato presidenziale; molto diverso, però, è il registro se si considerano soltanto gli elettori repubblicani, una fetta della popolazione ideologicamente orientata che il presidente ha avuto cura di mobilitare creando un clima da campagna elettorale permanente. Non va mai dimenticato che l’immagine del presidente non è che un riflesso di quella della celebrity popolare, creata nel corso di decenni di ossessiva presenza mediatica e reality show.
La strategia trumpiana è sempre stata quella di galvanizzare il suo pubblico, sfruttando a suo vantaggio lo stato di acuta polarizzazione ideologica e approfittando delle laceranti divisioni che indeboliscono i suoi avversari democratici. Da un certo punto di vista, lo scenario che proietta Trump verso le elezioni del prossimo anno non potrebbe essere più lontano da quello di quattro anni fa: il businessman si presentava assieme alla moglie Melania sulla scala mobile del basement della Trump Tower davanti a qualche centinaio di sostenitori per annunciare una campagna a dir poco improbabile.
Da un altro punto di vista però, nulla è cambiato. Il presidente batte sugli stessi tasti, ripropone gli stessi ritornelli sull’élite corrotta, l’immigrazione incontrollata, la classe dirigente che lavora contro gli interessi degli americani traditi dalla globalizzazione. E’ cambiata l’ambientazione, non lo spartito su cui l’orchestra di un uomo solo costantemente improvvisa.
A Orlando, Trump si è giusto impegnato ad evitare il solito dileggio degli avversari fatto di nomignoli e motteggi pre-adolescenziali, e solo in un’occasione ha sfottuto Joe Biden, lo “sleepy Joe” che esalta i sogni di rielezione del presidente. Per rilanciare il messaggio trumpiano sembra sufficiente fare leva sulla nostalgia di battaglie già vinte, di complotti già sgominati, di fake news già debellate. E’ bastato evocare per un attimo l’epocale sconfitta di Hillary Clinton nel 2016 per suscitare nella folla il coro forcaiolo “lock her up!”.
“Hanno provato a togliervi la dignità e a distruggere il vostro destino. Ma noi non glielo permetteremo mai, giusto?”, ha detto Trump, evocando le immancabili macchinazioni degli avversari per soffocare le aspirazioni del popolo americano. “Hanno provato a cancellare il vostro voto, a cancellare l’eredità della più grande elezione nella storia del nostro paese”, ha aggiunto. Nel rinsaldare i legami con il proprio popolo, Trump può – almeno per un momento – obliterare la condizione di permanente instabilità che caratterizza il suo governo. Le devastanti lotte interne, il ricambio continuo di ministri e consiglieri, la guerra in stile reality, l’atmosfera ciclotimica in cui saltano nomine e si spezzano alleanze per un colpo di tosse o per la scelta di portare i baffi sono elementi ormai strutturali dell’operare trumpiano. La logica intrinseca del governo e delle sue burocrazie non ha ricollocato Trump nel perimetro dell’agire razionale, e molti suoi sostenitori lo considerano il migliore dei pregi: il presidente è rimasto “his own man”, come dicono gli americani, è rimasto se stesso, il potere non l’ha cambiato.
Le circostanziate indicazioni che parlano di un presidente in stato di crisi permanente e dunque attaccabile senza troppi problemi da chi emergerà vincitore dalle sanguinose primarie democratiche vanno bilanciate con elementi di medio e lungo periodo che depongono invece a favore di una rielezione.
Dal dopoguerra in poi, gli americani hanno bocciato dopo il primo mandato soltanto due presidenti, rendendo la rielezione una tendenza quasi fisiologica. Trump ha poi presieduto su un periodo di sostanziale crescita economica – benché segnata da un recente rallentamento – fattore legato a doppio filo al destino dei presidenti. La disoccupazione ha raggiunto il punto più basso negli ultimi 50 anni, anche nel settore manifatturiero, il Dow Jones è cresciuto di circa un terzo dall’elezione di Trump. Nonostante i venti belligeranti sull’asse Washington-Teheran, gli Stati Uniti non sono impegnati in una guerra di ampio raggio, e Trump è il rappresentante supremo di tendenze populiste e nazionaliste che si sono manifestate in tutto il mondo, dall’Europa orientale all’India, fino all’Australia e all’America Latina, passando per la Brexit. Senza dimenticare, naturalmente, il caso italiano.
La consonanza con questo spirito presente un po’ dovunque nell’opinione pubblica, con un’ondata che non sembra avere ancora raggiunto il suo punto più alto, offre a Trump e ai suoi sostenitori la speranza più importante: che il brand ideologico del populista da reality sia ancora più forte dei contrasti, delle incompetenze, dei pasticci e degli affanni di un’amministrazione sconclusionata.