La rivoluzione gentile

È necessaria una rivoluzione dei comportamenti manageriali per favorire lo sviluppo di leader capaci di guidare imprese sempre più liquide e diversificate. Le persone vanno incentivate a esprimere le proprie vocazioni, perché su quelle lavoreranno meglio, e va sviluppata la capacità di ascolto, a tutti i livelli, perché le idee non hanno gerarchia. La leadership gentile è a portata di mano.

 

Smart working, reskilling, conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita, leadership gentile: la pandemia ha reso evidente che un altro mondo del lavoro è non solo possibile, ma anche urgente. Perché nell’epoca delle organizzazioni liquide e disintermediate, la gestione delle risorse umane non può più fare leva su controllo e gerarchie.

È il momento di chiudere nel cassetto il cinismo e di attivare al meglio le propensioni individuali; la partita si vincerà con la generosità individuale, senza cercare alibi per tornare ai modelli passati.

 

SENTIRE PRIMA DI DECIDERE. Dal work from home al ridisegno degli spazi lavorativi, fino alla possibile scomparsa dell’ufficio così come lo conosciamo: questo il percorso evolutivo. L’applicazione su vasta scala dello smart working ha avuto un impatto culturale prima ancora che tecnologico, ponendo ogni organizzazione di fronte alla necessità di ripensare i propri modelli.

A essere in discussione, nell’era delle relazioni “disintermediate”, sono temi ampi come il project management e i nuovi processi lavorativi, la focalizzazione sugli obiettivi e la marginalità dei tempi di lavoro, i piani di carriera e il diritto alla crescita professionale, ma anche e soprattutto la rivoluzione dei comportamenti manageriali, per favorire lo sviluppo di leader capaci di guidare imprese sempre più liquide e diversificate. Temi sui quali anche il legislatore e le parti sociali giocheranno un ruolo di rilievo, fornendo le precondizioni per una gestione efficiente del capitale umano, in linea con le esigenze di crescita di tutto il sistema paese.

Il futuro vedrà affermarsi una leadership gentile. Una leadership che saprà valorizzare risultati, benessere e motivazione. Che saprà agire su due binari comportamentali: il fare e il sentire. Il sentire le emozioni, le vocazioni, le ambizioni delle persone.

Prima di questa emergenza, il mondo si era attestato su modelli di successo, di comando e controllo. I leader e le leader arrivavano al comando e avevano una visione asimmetrica della relazione, nella quale confondevano la gerarchia con la partecipazione. Questo meccanismo portava a pensare che le idee del capo fossero le migliori, che i consigli del capo fossero i migliori. Riconoscere che il contributo di qualcun altro fosse migliore del proprio equivaleva a depotenziarsi.

Viceversa, oggi stiamo entrando in un mondo molto complicato, le persone sono in movimento, le aziende si stanno destrutturando, i giovani sono sempre più preparati. Ci sono ibridi tra start-up, lavoro privato, lavoro dipendente. Le idee non hanno gerarchia, e vanno ascoltate a tutti i livelli dell’organizzazione. La gentilezza diventa un territorio che crea uno spazio di ascolto tra persone e lascia esprimere le idee prima di prendere decisioni.

Questo è il futuro, dove la gerarchia non sparisce, ma entra in un secondo momento, quello della realizzazione, del fare. La novità è attivare il sentire, atteggiamento in cui il leader o la leader gentile dà spazio alle persone; nel decidere spiega perché sceglie una cosa e non un’altra e poi si espone, con la sua autorevolezza.

 

COME CAMBIA LA GERARCHIA. Ecco: questo modello può diventare vincente. Può dare direzione, gestire paure e creare senso. È chiaro, avvincente, anche se trasforma i vecchi equilibri gerarchici.

Nel dare spazio alle vocazioni profonde di ognuno si liberano poi energie inesplorate. La gente si trova a volte a fare lavori per caso o per necessità, ma nel tempo bisogna provare a portare le persone dove hanno desiderio di esprimersi. Sembra un obiettivo teorico ma è veramente pratico: se una persona ha una vocazione basta chiedere quale sia, tenerne conto e nel tempo abilitarla.

Facendo domande cominciamo a capire i bisogni di ognuno e troviamo il coraggio di investire nel cambiamento. È importante ricordare che una persona che si sente chiamata a lavorare su una propria vocazione diventa coraggiosa. Non possiamo dividere il mondo in paurosi e coraggiosi, le persone hanno sia la paura che il coraggio.

 

LA PAURA È IL CORAGGIO. La domanda è: quando è che si attivano? Quando il dover vincere una cosa per un bisogno interiore attiva il coraggio e spegne le paure. Se una persona lavora su ciò che ama, avrà più coraggio di fare piuttosto che paura di essere inadeguata.

La sfida nelle organizzazioni si può vincere solo attivando una relazione di cura. Una relazione in cui le persone non sono numeri, ma volti; un luogo in cui sono sottratte all’anonimato e possono esprimersi al meglio.

Si tratta un tema su cui abbiamo cominciato a dare l’esempio, perché era facile parlare di leadership gentile e poi cominciare a controllare. Abbiamo anche cambiato completamente il modo di parlare ai giovani nel recruiting. Oggi non si entra più in Enel se non attraverso una situazione nuova in cui i giovani, parlo dei neolaureati, si trovano in gruppi di 20 persone, multiculturali: un ingegnere, un filosofo, un geologo, un economista.

Si presentano in un minuto, presentano la loro passione, fanno un lavoro di sottogruppo su un tema che gli diamo, molto creativo, e poi presentano l’idea a tutti. Alla fine, i giovani votano chi hanno preferito nella presentazione individuale, chi nella presentazione della passione, chi nel sottogruppo e chi nella presentazione generale.

 

COME CAMBIA LA SELEZIONE DEI GIOVANI. Sono quattro momenti in cui si misura la leadership, l’engagement (passione), il team work, lo story telling. Risultano idonei tutti coloro che sono nelle prime posizioni di una classifica, frutto della votazione degli stessi giovani partecipanti. Poi i ragazzi vengono riposizionati nei cluster professionali di appartenenza e proseguono con i colloqui di dettaglio.

Ma se in quell’aula ci sono 20 fenomeni, il recruiter ha un diritto: gli è piaciuto il numero 9? Può sceglierlo, però deve seguire la classifica dei giovani: se gli è piaciuto il ventesimo, tutta l’aula sarà idonea. Questo processo ha disintermediato lo scegliere persone simili a noi, le persone attitudinalmente idonee sono scelte da loro pari.

Prima c’era asimmetria: il capo faceva i colloqui e sceglieva chi gli piaceva, adesso sceglierà chi gli piace tra coloro che i giovani hanno abilitato. È un esito rivoluzionario. Se non ci facciamo dominate dall’idea che è sempre qualcun altro che ci deve risolvere i problemi e partiremo dagli individui, che si e la faremo.

Io penso che le cose avvengano perché le persone cominciano a battersi per farle accadere, la politica non può risolvere le cose che non vede. Noi dobbiamo dare degli esempi e la politica cavalcherà quello che interessa alle persone. Così arriveranno le leggi, non dobbiamo aspettarle.

Ci saranno 800.000 posti generati dal Recovery Plan e non sappiamo ancora che profili sono e come riconvertirli. A me piacerebbe che si aprisse un tavolo che non dica “queste sono le persone che purtroppo dovranno uscire”, ma “questi sono i bisogni operativi che abbiamo”. Sediamoci insieme e facciamo un’opera di reskilling che sia d’aiuto a tutto il sistema. E assisteremo alla rivoluzione gentile.

 

 


L’articolo è tratto dal numero 94 di Aspenia, in uscita a ottobre 2021

 

 

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