Se chiedete a una famiglia media americana quale sia la principale fonte di ansietà finanziaria, la risposta è in genere questa: i costi dell’istruzione e della sanità. Come dimostrano una serie di dati sull’economia degli Stati Uniti pubblicati da Vox, i servizi stanno diventando molto più costosi di un tempo mentre il prezzo dei beni manufatti (l’America continua comunque a produrre una quantità di cose) è diminuito notevolmente, insieme al numero dei posti di lavoro in questo settore.
A differenza di parte dell’Europa, l’economia degli Stati Uniti si è ripresa abbastanza rapidamente dalla crisi finanziaria del 2008 e oggi cresce a tassi attorno al 2%. Tuttavia, la produttività sta aumentando molto più lentamente di quanto non accadesse da decenni; e questo si traduce nel declino percepito degli standard di vita. Sta qui – al di là di dati che vanno e vengono sulla curva dei redditi e dell’occupazione – la ragione essenziale del “disincanto” palpabile del cittadino medio americano: la percezione è che le proprie condizioni di vita stiano peggiorando, non migliorando. Per la prima volta dal secolo scorso, i figli della classe media staranno peggio dei genitori. L’ansia sui costi dell’istruzione e della sanità è un simbolo della rivoluzione in corso: il passaggio a una fase politica e sociale segnata da aspettative decrescenti.
Ralf Dahrendorf, grande sociologo tedesco-britannico scomparso pochi anni fa, aveva intuito subito che la conseguenza essenziale della crisi finanziaria del 2007-2008 non sarebbe stata economica ma politica. In sostanza: Dahrendorf aveva capito che, con aspettative decrescenti, sarebbe entrata anche in crisi la democrazia americana, retta per decenni dalla vitalità della classe media e dalla convinzione di un progresso illimitato.
Siamo appunto arrivati a questo rischioso passaggio, come dimostra la campagna elettorale del 2016. È lo scontro ruvido – fatto di dibattiti brutti, ancora prima che brutali – fra due candidati vecchi (i più vecchi della storia elettorale americana), che piacciono poco entrambi (l’indice di gradimento rispettivo è fra il 40 e il 50%) e che sono impegnati in un gioco delle parti abbastanza paradossale. Trump, dall’alto dei suoi milioni di dollari (guadagnati, persi, e poi non denunciati), difende la gente contro l’establishment. È il meccanismo tipico del populismo, mescolato al nativismo e al protezionismo (la difesa dei bianchi contro le minoranze, della “rust belt” contro New York o San Francisco, dei maschi contro le donne, dell’America contro la Cina e via dicendo). Hillary Clinton, che dell’establishment americano è un prodotto quasi dinastico, rivendica la propria esperienza politica.
Ma la verità è che, per vincere, è costretta a distanziarsi prima di tutto da se stessa: la Hillary del 2016, che difende con convinzione Main Street contro Wall Street, è più “radical” di quanto sia mai stata. E mentre la campagna elettorale si trasforma così in un reality show, diventa impossibile qualunque dibattito sostanziale sulle scelte decisive da compiere: politica fiscale, investimenti, gestione del debito americano.
In un articolo pubblicato la scorsa settimana su The Economist, Barack Obama affronta i punti di forza e di debolezza dell’economia americana, concludendo che le sfide centrali, per il prossimo Presidente, saranno di recuperare tassi di produttività più dinamici, di ridurre la disuguaglianza interna e di invertire la tendenza al declino nella partecipazione al lavoro delle nuove generazioni. Yes, but: sì, ma Obama – che difende commercio e globalizzazione come leve per una crescita “sostenibile” – guarda ad un “centro” della politica americana che oggi si sta disgregando e che dovrà essere ricostruito perché il prossimo presidente riesca a governare.
La Rivoluzione delle aspettative decrescenti, infatti, cambia la natura del conflitto politico: la linea di divisione non è più quella novecentesca fra destra e sinistra ma passa fra la gente e la “casta”, in un clima di polarizzazione sempre più estrema; fra finanza ed industria; fra apertura e chiusura del paese. I partiti tradizionali si sfaldano (il Grand Old Party) o sono dominati da pochi (il Partito Democratico). La posta in gioco sono quel terzo di indecisi che oscillano, fra un dibattito al veleno e una “sorpresa di ottobre” (l’evento imprevisto che potrebbe cambiare il voto).
E intanto – come ha dimostrato il precedente della Brexit – i sondaggi non riescono più a cogliere le tendenze reali. Nell’età delle incertezze, valgono le scommesse più delle previsioni. La mia personale scommessa è che alla fine Hillary ce la farà, grazie anche ad un sistema elettorale che tende a correggere il voto popolare.
Perché la presidenza della prima donna alla Casa Bianca sia utile – alla democrazia americana e alle democrazia occidentali – è indispensabile che la crisi identitaria che sta vivendo l’America “media” non sia trattata soltanto come un problema economico (naturalmente lo è) ma anche come il grande problema politico dell’epoca attuale.
*A version of this article has been published in La Stampa on October 5