La risposta iraniana alla “strategia della massima pressione” di Trump

L’escalation di tensione fra USA e Iran nel Golfo Persico, culminata con l’abbattimento il 20 giugno di un drone americano nell’area dello Stretto di Hormuz, trae origine dalla ben nota decisione unilaterale del presidente Trump, l’8 maggio 2018, di uscire dall’accordo nucleare con l’Iran, il cosiddetto Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA). A seguito di quella decisione, la Casa Bianca ha adottato nei confronti di Teheran una strategia di “massima pressione”, incentrata sulla piena reintroduzione delle sanzioni sospese con l’entrata in vigore del JCPOA, e su sforzi congiunti con i propri alleati regionali per contenere l’influenza iraniana nei paesi vicini.

Obiettivo ufficiale dell’amministrazione americana era spingere l’Iran a un nuovo accordo, che avrebbe riguardato non solo il suo programma nucleare ma anche gli indirizzi della sua politica regionale. Le richieste statunitensi, sintetizzate in 12 punti dal Segretario di Stato Mike Pompeo, includevano la totale rinuncia iraniana all’arricchimento dell’uranio, lo stop allo sviluppo dei missili balistici, la fine degli aiuti agli alleati in Libano, Palestina, Iraq e Yemen, e il ritiro completo dalla Siria.

Una manifestazione anti-Trump in Iran

 

La leadership iraniana aveva prevedibilmente risposto che, sotto il ricatto delle sanzioni e alla luce dell’incapacità di Washington di onorare un impegno già preso (il JCPOA), ogni ulteriore negoziato sarebbe stato impossibile.

Teheran aveva tuttavia adottato una strategia di “pazienza strategica”, continuando a rispettare l’accordo nucleare nella speranza che, malgrado le sanzioni statunitensi, i rimanenti firmatari del JCPOA (Cina, Russia, Gran Bretagna, Francia, ossia tutto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU tranne gli Stati Uniti, più la Germania) avrebbero infine garantito all’Iran un certo sollievo economico.

Ma a seguito della sostanziale inerzia europea, russa e cinese, e a causa dell’impatto durissimo delle sanzioni sulla propria economia, la Repubblica Islamica ha cambiato i propri calcoli strategici.

L’8 maggio, a un anno esatto dall’uscita di Trump dal JCPOA, i leader iraniani hanno annunciato che avrebbero temporaneamente sospeso alcuni dei propri adempimenti relativi all’accordo nucleare, concedendo agli altri contraenti 60 giorni per onorare i loro impegni, pena l’adozione di ulteriori provvedimenti da parte iraniana.

L’aumento della tensione nel Golfo è stato immediato: gli USA hanno inviato altri mezzi militari nella regione, e si sono verificati attacchi – seppur di limitata entità – a diverse petroliere nel vicino Golfo di Oman a maggio e a giugno. Attacchi subito attribuiti da Washington all’Iran, sebbene non vi siano prove definitive in proposito.

L’annuncio iraniano dell’8 maggio, gli attacchi alle petroliere, e infine l’abbattimento di un drone americano in prossimità dello Stretto di Hormuz (in acque iraniane secondo Teheran, in acque internazionali secondo Washington), sembrano indicare che Teheran sia intenzionata a seguire gli Stati Uniti in un’analoga strategia di pressione, allo stesso tempo imponendo dei costi agli altri contraenti del JCPOA per il mancato rispetto dei loro impegni.

 

Verso la guerra?

La leadership iraniana non vuole giungere a un conflitto armato, che avrebbe conseguenze devastanti per il paese, ma non considera più accettabile assistere allo strangolamento progressivo della propria economia senza reagire. Dal punto di vista iraniano però, l’embargo statunitense, che ha ridotto quasi a zero le esportazioni petrolifere del paese e impedisce alle banche iraniane qualsiasi transazione internazionale, è di per sé un atto di guerra finalizzato in ultima analisi non a portare l’Iran al tavolo negoziale, ma direttamente al rovesciamento del regime.

Sebbene vi sia qualche segnale di stabilizzazione dell’economia, che potrebbe far ritenere scongiurato uno “scenario venezuelano” per il paese (l’economia iraniana, a differenza di quella venezuelana, dipende solo per un 15-20% dal petrolio), ciò non è sufficiente a rassicurare i vertici del potere politico-religioso.

Del resto, il senso di vulnerabilità e solitudine strategica è parte integrante – non meno dell’aspirazione a esportare la rivoluzione – dell’ideologia della Repubblica Islamica fin dalla sua fondazione. Negli anni ’80 del secolo scorso, mentre ancora doveva consolidarsi al suo interno, essa dovette confrontarsi con i missili e le armi chimiche di Saddam Hussein, la cui guerra di aggressione ebbe il sostegno americano, europeo e dei paesi del Golfo. Negli anni successivi Teheran dovette fare i conti con la crescente presenza militare americana nella regione, e con un embargo via via più soffocante che ha ostacolato lo sviluppo della sua economia e delle sue capacità di difesa.

La proiezione regionale, lo sviluppo di missili balistici e il programma nucleare hanno storicamente rappresentato altrettanti aspetti della strategia di sicurezza dell’Iran. In particolare, la produzione missilistica e l’alleanza con attori come l’organizzazione libanese Hezbollah e le milizie sciite irachene sono per Teheran elementi imprescindibili di una strategia di deterrenza asimmetrica che sopperisce al mancato sviluppo di un’aviazione e di un esercito moderni a seguito dell’embargo militare cui il paese è sottoposto.

Firmando il JCPOA nel 2015 l’Iran aveva accettato di porre limiti al proprio programma nucleare, ma aveva constatato che le sanzioni americane non legate al nucleare continuavano a ostacolare il pieno reinserimento del paese nel circuito economico mondiale. Per poi subire la totale reimposizione delle sanzioni a causa della decisione arbitraria con cui Trump aveva abbandonato l’accordo firmato dal predecessore Obama.

La leadership iraniana dunque non crede più all’affidabilità negoziale americana, e ritiene che le attuali offerte di dialogo, pronunciate dall’amministrazione Trump nello stesso momento in cui Washington imponeva nuove sanzioni nei confronti della Guida suprema Ali Khamenei e di esponenti della Guardia rivoluzionaria, siano solo una tattica per prevenire una reazione iraniana mentre gli USA continuano a soffocare l’economia del paese. Analogamente, i 12 punti negoziali formulati dal Segretario di Stato Pompeo appaiono agli occhi di Teheran come un tentativo di costringere l’Iran a rinunciare a tutti gli aspetti della propria deterrenza strategica, sguarnendo la sicurezza del Paese.

 

Escalate to de-escalate

Sulla base di queste interpretazioni, i vertici iraniani hanno adottato una nuova strategia di “escalation reversibile”, com’è stata definita da alcuni (“escalate to de-escalate”, secondo un’analoga formula inglese), in base alla quale Teheran si dichiara pronta a tornare al pieno rispetto del JCPOA e a un atteggiamento militare meno provocatorio, ma solo a seguito di analoghi passi concreti da parte di Washington e degli altri firmatari dell’accordo.

In altre parole, l’Iran mostra di non essere più disposto a rispettare l’accordo del 2015 in assenza di reciprocità, e di voler adottare misure diplomatiche e militari finalizzate a fargli riacquistare potere contrattuale ad un eventuale futuro tavolo negoziale – al quale Teheran siederà solo quando avrà la certezza di non trovarsi più in una condizione di netta inferiorità rispetto alle controparti.

Quella iraniana è una strategia rischiosa, poiché instaura un vero e proprio braccio di ferro con la Casa Bianca. Inoltre, se spinta oltre un certo limite, questa tattica potrebbe indurre gli europei a riavvicinarsi alle posizioni americane. Essa si basa da un lato sulla convinzione che opporsi alla strategia di “massima pressione” dell’amministrazione Trump sia una scelta obbligata per spezzare la morsa che sta soffocando l’Iran, e dall’altro sull’idea che né Trump né il Pentagono sono propensi a lanciarsi in un’avventura bellica contro Teheran.

I vertici militari iraniani hanno dichiarato che risponderanno con un contrattacco su vasta scala anche a una limitata azione statunitense in territorio iraniano, proprio perché vogliono impedire che l’Iran diventi bersaglio di interventi americani circoscritti o mirati ma ripetuti nel tempo, sulla falsariga di quanto è avvenuto ad esempio in Siria.

L’intera strategia iraniana è finalizzata in conclusione a rendere un eventuale conflitto con gli USA il più lungo e costoso possibile per Washington. Alla luce di ciò, alcune recenti dichiarazioni di Trump sull’eventualità di un “blitzkrieg” contro l’Iran che non coinvolga truppe americane di terra appaiono irrealistiche (anche se coerenti con uno scenario “siriano”), ma soprattutto pericolose considerando la tensione accumulata tra i due attori.

La strategia statunitense della “massima pressione”, facendo anch’essa dell’intransigenza un elemento chiave, contribuisce infatti a portare verso lo scontro. Vi è dunque il rischio che si inneschi una spirale di azioni e reazioni inizialmente non volute, ma incontrollabili.

L’unica via d’uscita da questa impasse è un’azione diplomatico-politica congiunta da parte di Europa, Cina e Russia per assicurare almeno un parziale sollievo economico all’Iran attraverso meccanismi di aggiramento delle sanzioni, o per convincere Washington a ridurre l’impatto delle sanzioni stesse, eventualmente tramite la reintroduzione dei “waiver” sulle esportazioni petrolifere iraniane. Dare ossigeno all’economia iraniana è l’unico passo che potrebbe smorzare le tensioni e riaprire uno spiraglio negoziale fra le parti.

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