L’Italia chiusa per COVID-19 è anche un’Italia tecnologicamente spaccata, perché è economicamente polarizzata e culturalmente diversificata. La tecnologia non è un’entità in sé ma un ambiente costruito nel quale si sviluppano le capacità diffuse in una società. Sicché la consapevolezza delle minacce e delle opportunità offerte dalla tecnologia non dipende dalla tecnologia. Al massimo da chi la progetta, da chi la gestisce, da chi stabilisce le regole per usarla e soprattutto da chi investe nell’informazione e nell’educazione che consente di aprire gli occhi su tutto questo: passaggio fondamentale per costruire una relazione attiva e non passiva con la tecnologia.
Il microcosmo di tutto questo si legge probabilmente nei rapporti sulla cybersecurity. Sempre più simili a quelli che riguardano la circolazione delle notizie false o la diffusione di messaggi di odio. I manipolatori delle coscienze altrui, come i truffatori di ogni ordine e grado, attaccano persone vulnerabili, in difficoltà, impaurite. E niente di meglio, per questi criminali, che provare a sfruttare la condizione emotiva speciale che vive una parte della popolazione ai tempi della clausura virale.
Il Threat Intelligence Lab della Nokia studia le principali minacce alla sicurezza online. E quelle più diffuse al momento sono proprio collegate all’epidemia: “Corona Virus” per esempio, è un trojan che attacca i sistemi operativi Windows simulando una mappa delle infezioni di COVID-19 che induce gli utenti a cliccare per informarsi e invece li infetta con un software che poi ruba le informazioni sensibili registrate sul computer; “CovidLock” attacca i telefoni con sistema operativo Android, si presenta come un’app che informa gli utenti sulla presenza nelle vicinanze di persone infette da COVID-19 e invece una volta installata blocca il terminale e chiede un riscatto di 250 dollari in bitcoin; “Android.Corona Safety Mask” si finge un’app per trovare mascherine e in realtà si fa dare i contatti dagli ignari utenti ai quali poi invia messaggi fraudolenti. Anche se può capitare a tutti in un momento di distrazione di cadere in queste trappole, in generale, coloro che abboccano dimostrano scarsa consapevolezza e forte emotività nei confronti dell’epidemia.
Ma se questi casi mettono in difficoltà una parte, speriamo, minoritaria dell’utenza delle tecnologie digitali, la maggioranza è più toccata dalle difficoltà di gestione della tecnologia per svolgere le attività quotidiane negate dalla clausura. E la reazione passiva o attiva in questo caso si manifesta in un modo diverso. C’è in effetti un’Italia che si chiude nella tragedia e un’altra che reagisce in fretta e costruttivamente. C’è un grande corpo economico e sociale che si ferma e un insieme di attività che invece continuano nonostante tutto.
Gli italiani in ogni caso sembrano attingere a risorse che dimostrano quella leggendaria resilienza che il Financial Times ha voluto ricordare recentemente. Ma non tutti si mostrano nelle condizioni di poter contribuire a pensare e costruire un futuro più grande di questo ristrettissimo presente.
Il dato generale è chiaro: internet è improvvisamente diventata più rilevante, per fare acquisti, per informarsi, per lavorare. A questo proposito, i dati sono incontrovertibili. Joy Marino, presidente del Milan Internet Exchange (Mix, il centro di smistamento del traffico tra i vari operatori), vede minuto per minuto come cambia l’uso della rete: a partire dal 10 marzo scorso il traffico sulle macchine del Mix è aumentato da 0,75 a 1,1 terabit al secondo. E da allora non è più calato. «Inoltre» dice Marino «l’upload è aumentato del 100% rispetto alla media delle due settimane precedenti. Il traffico è cambiato con le abitudini degli italiani: non sono più collegati prevalentemente la sera per vedere Netflix ma restano online tutto il giorno e lavorano, collaborano, fanno videochiamate, mandano file pesanti e ne ricevono altrettanti». Secondo Opensignal, del resto, nelle quattro settimane tra la metà di febbraio e la metà di marzo, gli italiani hanno aumentato l’uso del wifi con il cellulare di un buon 20%. Insomma, il traffico internet dimostra che c’è un aumento significativo del lavoro da casa. Ma chi riguarda?
La spaccatura è forte: secondo un’indagine dei Consulenti del lavoro ci sono quasi 8 milioni e mezzo di dipendenti che non lavorano per niente e 4,4 milioni che continuano a lavorare. Di questi 2,2 milioni lavorano da casa. E poi ci sono i lavoratori autonomi che hanno saputo riorganizzare la casa come un ufficio, mentre ci sono quelli che non hanno potuto farlo. Gli italiani che lo hanno fatto, volenti o nolenti, hanno dimostrato di sapersi adattare in fretta. Osserva Arianna Visentini, amministratore delegato e presidente di Variazioni, ha recentemente scritto con Stefania Cazzarolli un libro per FrancoAngeli sullo smart working. «Prima dell’emergenza Coronavirus erano circa 580mila le persone che lo adottavano, dalle ultime stime sappiamo che potenzialmente, nel nostro Paese potrebbe riguardare 8 milioni di lavoratori». Evidentemente, solo una parte di questi lo ha adottato. Un po’ perché ha saputo farlo. Un po’ perché ha potuto farlo.
Nello stesso tempo, le aziende che sono riuscite a restare in attività non superano il 34%, sempre secondo i Consulenti del lavoro, e solo l’11,5% continua a lavorare come prima mentre il 23% segnala un rallentamento. Posto che le aziende leader dal punto di vista dell’innovazione sono state da più fonti calcolate come il 20% delle aziende italiane, questo significa che metà delle aziende che fanno la differenza nella dinamica dello sviluppo italiano non sono riuscite a continuare a lavorare come prima. Segno evidentemente di problemi nelle rispettive filiere. Ma in parte anche di una scarsità di connessioni sufficientemente testate e di modelli di lavoro sufficientemente agili. Insomma: le aziende connesse che lavorano in filiere connesse e con personale connesso a dovere riescono a proseguire senza danni ma superano di poco un decimo del totale. Un risultato minore del potenziale.
Certo, si tratta di dati molto parziali e che si raccolgono in circostanze davvero inusuali. Per ora non si segnalano particolari crolli nella connettività. Si può ammettere che, come dicono alcuni osservatori, certi provider di contenuti che richiedono molta banda abbiano gestito la quantità di bit necessari ai loro pacchetti di dati per evitare intasamenti eccessivi. E comunque in generale la rete ha retto. Questo si può interpretare come un segno del fatto che tecnicamente funziona. Ma può significare anche che gli italiani si sono adattati. E quando non hanno potuto adattarsi, hanno fatto a meno. O hanno fatto peggio, dal punto di vista della produttività. Si sono adattati anche lavorando in adsl su doppino di rame quando non hanno la fibra. I fatti accaduti in queste settimane segnalano che la rete deve evolvere in modo da consentire molto più upload di quanto non si possa fare adattandosi al doppino, che rallenta le connessioni proprio in upload. Insomma, occorre più fibra nelle case. Dunque occorrono investimenti. E non solo nelle aree centrali per ampiezza del mercato, nelle grandi città che consumano tanto, ma anche nei piccoli centri che consumeranno forse meno ma sicuramente producono tanto. In quei piccoli centri, la rete è un motivo fondamentale per lo sviluppo futuro.
Nel corso di questa crisi si sperimenta in pieno la logica della rete. E in questa logica, se non si fa nulla, la quota di quelli che attirano più risorse si assottiglia nel tempo. Ma qualcosa invece si può fare pensando l’architettura della rete in modo distribuito e non centralizzato. Se non si interviene, in una rete, la polarizzazione del sistema produttivo aumenta.
Per fare diversamente la rete non può più essere considerata come una variabile dipendente dalla domanda: deve essere una variabile indipendente che produce opportunità, che alimenta la ridondanza, che consente attività che non erano pensate al momento di progettarla e che include i territori e i modi d’uso che in un paradigma erano marginali ma che nel nuovo paradigma diventano centrali: in altre parole, nel paradigma dell’internet per consumatori basta quello che c’è, ma nel paradigma dell’internet per i produttori può migliorare. La rete giusta è ridondante, per servire una popolazione resiliente.