La seconda guerra civile della Repubblica Centroafricana dura ormai da oltre sei anni e, nonostante i ripetuti tentativi di giungere a un accordo di pace, non se ne vede la fine all’orizzonte. Numerosi gruppi armati si spartiscono e si contendono il territorio, vessando e depredando la popolazione locale, mentre il governo internazionalmente riconosciuto fatica anche a mantenere il controllo della capitale Bangui nonostante l’appoggio della missione MINUSCA delle Nazioni Unite.
Il conflitto ha causato migliaia di morti, provocato oltre un milione di sfollati ed esacerbato le tensioni etniche e religiose, cause apparenti della violenza. In realtà, dietro la nascita e la prosecuzione del conflitto si nascondono gli interessi politici ed economici dei diversi signori della guerra e uomini forti, imprenditori, criminali, comandanti o uomini politici a seconda dell’occasione e dell’interlocutore al comando delle fazioni, che ambiscono al potere e si arricchiscono sfruttando le ricche risorse minerarie e naturali di cui abbonda il paese. Il loro gioco sporco è favorito dall’ingerenza dei vicini e delle potenze internazionali, che riflettono a propria volta i propri appetiti geopolitici ed economici trafficando e supportando i diversi attori locali.
Lo studio “Splintered Warfare II” risalente allo scorso novembre ed elaborato dall’organizzazione di attivisti The Enough Project, ha identificato diciotto gruppi o raggruppamenti armati principali attualmente attivi nella Repubblica Centroafricana, di cui cinque originari di paesi confinanti. A nord e ad est dominano fazioni musulmane, provenienti sia dall’area settentrionale del paese sia dai vicini Ciad e Sudan, un tempo riunite nella coalizione séléka che rovesciò a marzo 2013 l’allora presidente François Bozizé. Oggi sono riunite nuovamente in una lasca alleanza, nonostante negli anni scorsi si siano verificati diversi scontri su base apparentemente etnica. A sud e a ovest comandano i cosiddetti anti-balaka, nati come gruppi di autodifesa delle popolazioni cristiane e animiste, in parte allineati con le forze fedeli a Bozizé.
Dietro la propaganda dello scontro religioso, utilizzata dalle diverse fazioni per infiammare gli animi dei giovani da reclutare nelle proprie milizie e per guadagnare l’appoggio della popolazione, si celano in realtà le brame personali dei comandanti e dei loro clan. Le autorità religiose locali hanno denunciato più volte la strumentalizzazione violenta della fede da parte delle milizie, e se da un lato sia chiese sia moschee sono state oggetto di brutali attacchi, dall’altra numerosi sono anche stati gli episodi di solidarietà interconfessionale.
Un rapido sguardo alla storia della Repubblica Centroafricana conferma peraltro come la religione, al contrario delle appartenenze etniche, non abbia mai giocato un ruolo importante nelle vicende politiche del paese, un tempo colonia francese poi divenuta indipendente nel 1960. La maggioranza cristiana e animista ha convissuto pacificamente con la minoranza musulmana, stimata prima del conflitto tra un decimo e un quinto della popolazione e concentrata prevalentemente a nord e nella capitale, e i diversi uomini forti nella vita del paese hanno sempre travalicato le linee di fede nello scegliere alleati e nemici. Bozizé, cristiano, fu supportato militarmente da truppe musulmane ciadiane quando nel 2003 rovesciò il suo predecessore Patassé, invece suo correligionario, il quale a sua volta fu difeso, sebbene con scarsa convinzione, da un contingente libico. Anche gli oppositori del già presidente durante la prima guerra civile, combattuta in massima parte nei quattro anni successivi al golpe, vide dalla stessa parte della barricata cristiani come Édouard-Patrice Ngaïssona, oggi coordinatore di diversi gruppi anti-balaka, e futuri comandanti séléka.
E le alleanze interconfessionali continuano a ripetersi anche oggi, promosse proprio dagli stessi che soffiano sul fuoco dell’odio religioso. È il caso dell’alleanza intermittente, ma in corso ormai da quattro anni, tra i gruppi anti-balaka fedeli a Bozizé e coordinati da Maxime Makon e la fazione composta séléka l’FPRC-CNDS, due milizie unite guidate rispettivamente Michael Djotodia, che proprio di Bozizé prese il posto per circa un anno, e Abdoulaye Hissène. Si tratta dei cosiddetti “Nairobisti”, poiché l’accordo fu stretto proprio durante colloqui nella capitale keniota.
Al potere politico, garanzia non da ultimo dell’impunità anche di fronte ai tribunali internazionali in gioco ci sono le risorse naturali di cui la Repubblica Centroafricana, nazione tra le più sottosviluppate e povere del pianeta, è ricchissima. Oltre a vasti giacimenti auriferi e diamantiferi, il sottosuolo del paese custodisce anche petrolio, uranio, coltan e tantalio, e la superficie è ricca di terre arabili e di foreste da legname.
A svelare con dovizia di particolari la rete di interessi personali che spinge i comandanti delle milizie a prolungare e alimentare il conflitto è stato un rapporto del gruppo di analisti di The Sentry, uscito anch’esso lo scorso novembre e intitolato significativamente “Fear, Inc.”, raccontando come caso paradigmatico quello di Abdoulaye Hissène, comandante della fazione séléka CNDS. Musulmano, di etnia Runga, Hissène in origine un mercante di oro e diamanti di Akoursoulbak, villaggio settentrionale, riparò nel vicino Ciad per sfuggire ai debiti accumulati con la sua attività. Lì si riciclò come rivenditore di auto di lusso, entrando così nella cerchia di diversi imprenditori influenti e del presidente Déby. Nel frattempo si impose come coordinatore militare e poi come presidente del CPJP, gruppo armato Runga, con cui si ritagliò un ruolo di primo piano nella coalizione séléka grazie alla ricchezza accumulata con i traffici minerari e di armi. Negli anni successivi, nonostante la facciata moralista e sciovinista mostrata in pubblico, non ha esitato ad allearsi, come appena detto, con i suoi avversari, anche a scopo di fomentare congiuntamente violenze interreligiose nella capitale per erodere il supporto all’allora presidente, internazionalmente riconosciuta, Catherine Samba-Panza. Le sue milizie si sono macchiate di atrocità di ogni genere, comprese quelle commesse contro altri musulmani: in particolare nel 2015 la sua fazione si è scontrata violentemente contro l’UPC, milizia dell’etnia Fulani. Alla radice, anche in questo caso, c’era una disputa per il controllo di alcune miniere di diamanti.
Se personaggi come Hissène possono prosperare nel conflitto civile è certamente responsabilità dell’ingerenza di paesi stranieri, che li elevano al rango di interlocutori politici e ne comprano il favore e le risorse. Nel caso dei vicini, a questo aspetto si sovrappone anche l’instabilità che a loro volta li anima: Ciad, Sudan, Camerun e Repubblica Democratica del Congo offrono ai signori della guerra centroafricani luoghi dove vivere, reperire supporto militare – sia dal governo sia dai ribelli locali, scambiare e far transitare risorse ed armi, riciclarne i profitti.
Il fenomeno, peraltro comune a sua volta negli altri stati, è consolidato da decenni: il rapporto “The Central African Republic and Small Arms” del gruppo del progetto di ricerca Small Arms Survey, risalente al 2008, metteva in luce con precisione come dalle nazioni vicine fossero fluite per decenni le armi nel paese, come quelle vendute dai ribelli del Darfur sudanese, rifugiatisi lì periodicamente. E oltre alle armi passano spesso il confine anche le mani che le imbracciano: vale la pena ricordare come il presidente Patassé nel 2003, durante il colpo di stato di Bozizé, oltre ai libici avesse a servizio le truppe del gruppo congolese ribelle filo-ugandese MLC, guidato da Jean-Pierre Bemba.
Diversi, ma altrettanto decisivi, sono il peso e il ruolo delle grandi potenze. Su queste, a cui propone anche raccomandazioni da adottare, è concentrato lo studio sopracitato di The Enough Project. In particolare la Russia ha scelto di sostenere con decisione l’attuale e sempre più isolato presidente Faustin-Archange Touadéra, fornendo anche armi e istruttori al ricostituendo esercito nazionale. A seguirla in misura più contenuta sono stati anche gli Stati Uniti, timorosi di un’avanzata jihadista, e la Cina, che scorge un’opportunità da inserire all’interno della sua ormai avanzata penetrazione del continente e che gioca un punto di forza nei buoni rapporti col vicino governo sudanese. La Francia, già potenza coloniale, ha impegnato migliaia di uomini nella missione MINUSCA come ultima declinazione della sua costante presenza nell’antico possedimento, in virtù della quale ha di volta in volta concesso e ritirato il sostegno ai dittatori e presidenti autoritari succedutisi nei decenni alla guida del paese.
La risoluzione della guerra civile centroafricana è ostacolata da molti problemi di ardua risoluzione: confini vasti, porosi e incontrollati in una regione instabile. Povertà endemica della popolazione e mancanza di infrastrutture, istruzione e sanità. Per questo, se la comunità internazionale vorrà fare un tentativo serio di mettervi fine, dovrà comprendere a fondo le vere motivazioni e almeno evitare di legittimare soggetti che ne sono in realtà istigatori e perpetuatori.