La reciproca negazione di arabi ed ebrei in Palestina e Israele

“Onestamente, adesso mi è chiaro perché l’Europa si è sbarazzata degli ebrei. A Oslo, Arafat ha accettato uno stato sul 22% della Palestina Mandataria, ma niente. Vogliono tutto. Non c’è verso di integrarli. Restano un mondo a sé”, mi ha detto uno dei protagonisti della Prima Intifada: tra i pionieri della cooperazione con gli israeliani. Oggi dirige un centro culturale. Mentre parlava, ciclostilava “Il Mercante di Venezia”.

Prima del 7 Ottobre, i palestinesi ti precisavano: “Non ho problemi con gli ebrei. Il mio problema è il sionismo”. Ora, è cambiato tutto. L’esito della guerra è ancora aperto, e così il futuro di Hamas, e di Benjamin Netanyahu, e di Hezbollah, e di Gaza soprattutto, e degli Accordi di Abramo, ma una cosa è certa: ti senti dire: “Qui non c’è più spazio per gli ebrei”. “Dopo 40mila e passa morti, che tornino da dove sono venuti”.

Un tratto del Muro israeliano in Cisgiordania

 

Non è una rilevazione statistica, ovviamente. E come in ogni guerra, ogni vera valutazione va rinviata a guerra finita – e ad emozioni sedimentate. Ma basta stare nella West Bank in questi giorni, e ascoltare. Ti raccontano che gli israeliani stanno tutti andando via da Israele perché hanno capito che lo Stato ebraico non può vincere, che in Francia quattrocento francesi all’ora si convertono all’Islam, che ieri a Khan Younis l’IDF ha stuprato due sorelle davanti al padre, che l’altroieri a Gaza è stato sterminato un intero battaglione, ma che Israele tace, tace e poi dice che i suoi militari sono morti in incidenti d’auto, schiantandosi con il kyte-surf su una spiaggia di Bali: e addirittura, che molte delle vittime del 7 Ottobre sono state uccise dall’IDF: una teoria cospiratoria che nel mondo arabo sta cominciando a farsi strada. Circolano aneddoti di ogni tipo. “Ma come, non sai che l’autore della Torah è un agente della CIA? Ha confessato”. “E poi, come dice Freud, Mosè mica era ebreo”.

Ogni discussione sui palestinesi e l’antisemitismo, o più esattamente, sui palestinesi e gli ebrei, essendo anche i palestinesi un popolo semita, inizia dalla controversa figura di Haj Amin al-Husseini. Mufti di Gerusalemme dal 1921 al 1948, e, come è noto, ammiratore di Hitler. In realtà, i palestinesi (un po’ come fecero gli irlandesi) fondamentalmente durante la Seconda guerra mondiale si schierarono con la Germania per schierarsi contro la Gran Bretagna. Che all’epoca, in quanto potenza coloniale, era il primo nemico.

Negli anni successivi, però, il dubbio che tanti avessero accettato la soluzione dei due Stati lungo i confini del 1967 solo perché convinti che poi, nel tempo, avrebbe prevalso la demografia, e in Israele, la minoranza araba sarebbe diventata maggioranza, è sempre un po’ rimasto. O che l’avessero accettata come un assetto semplicemente temporaneo, per riorganizzarsi, e riarmarsi: la famosa hudna di Hamas. La tregua di lungo periodo. Di certo, ancora oggi gli studenti palestinesi non studiano la Shoah – come quelli israeliani, d’altra parte, non studiano la Nakbah, che dal 2009, in Israele, è parola fuorilegge. E nel 2023 persino il mite Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale palestinese che è contrario non solo alla resistenza armata, ma anche al boicottaggio di Israele, e considera Hamas alla stregua di al-Qaeda, ha dichiarato che Hitler combatté gli ebrei non perché ebrei, ma perché usurai.

Nonostante tutto, però, gli anni di Oslo sono stati anni di interazioni e relazioni. Anche perché al fondo, l’idea degli Accordi di Oslo del 1993, che hanno istituito forme di cooperazione in materia di sicurezza e economia, riservando a una seconda fase le trattative sui nodi politici, i nodi più ostici, come la ripartizione di Gerusalemme e il ritorno dei rifugiati, è quella della pace attraverso lo sviluppo. Tipica degli anni post-1989.

Il Parents Circle, l’associazione che riunisce padri e madri delle vittime, di qua e di là dal Muro della West Bank, simbolo della coesistenza, o come dicono i suoi attivisti, della co-resistenza, è stato fondato nel 1995. E diversamente dalle apparenze, la Seconda Intifada ha solo sospeso questa traiettoria. L’altra associazione simbolo, Combatants for Peace, che riunisce ex combattenti, è stata fondata nel 2006 proprio sulle sue ceneri.

La cesura si è avuta con la terza guerra di Gaza. Nel 2014. Una guerra vera, per la prima volta, una guerra che non si limita a missili e razzi, e che dura 51 giorni: e che si configura ormai come la regola, non l’eccezione, come parte dell’Occupazione – una Occupazione che nella West Bank, intanto, si va solo intensificando. La guerra si chiude ad agosto: a ottobre Amira Hass, storica firma di Ha’aretz, l’unica israeliana che vive a Ramallah, più palestinese di molti palestinesi, invitata a parlare all’università di Birzeit, è invece invitata ad andarsene. Da allora, la cooperazione di qualsiasi tipo con israeliani di qualsiasi tipo viene bollata come normalizzazione dell’occupazione. Settlers, “coloni”, è la parola usata al posto di “israeliani”.

 

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Così adesso, dal gelo si è passati all’odio. E dall’opposizione agli israeliani, all’opposizione agli ebrei. In larga parte, è un effetto della ferocia della guerra. Ma è anche un effetto del crollo dei media occidentali: la cui reputazione è ormai sottozero. A quasi un anno dal 7 Ottobre, non hanno neppure avuto accesso autonomo a Gaza. Né sembrano avere troppo insistito. E ora, in Medio Oriente il confronto con l’Ucraina è una sorta di luminol che fa subito risaltare ogni doppio standard. Dal New York Times in giù, questa guerra continua a essere descritta con perifrasi, sinonimi, verbi senza soggetto, verbi al passivo – azioni senza responsabilità. Gli ostaggi israeliani vengono raccontati uno a uno, e i palestinesi, invece, come cumulo, come numero. Alle fosse comuni corrispondono storie comuni. E il risultato è che nessuno legge più il New York Times o il Washington Post, o il Guardian. Se non per contestarli. E nello spazio che era prima della BBC, della CNN, ora domina non solo al-Jazeera, che pompa h24 immagini senza filtri, spesso sempre le stesse, con una potente camera d’eco: dominano Telegram e Facebook.

Ma come convincere i palestinesi che la stampa internazionale è migliore di quanto sembri? Quanti in Europa in questi giorni hanno letto dello studio di Lancet, secondo cui i morti, a Gaza, tra morti diretti e indiretti, sarebbero 186mila? L’8% della popolazione. Tra i palestinesi, e gli arabi, non si parla d’altro. Sui media europei questa stima è passata quasi sotto silenzio.

 

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“Eppure, la ricostruzione più complessa sarà quella immateriale”, ha commentato Mustafa Barghouti quando l’ONU ha calcolato che a Gaza, le macerie sono 310 kg a metro quadro: e che per rimuoverle, saranno necessari 14 anni. Il 3 luglio, a Roma, è intervenuto a un convegno insieme all’israeliano Shlomo Ben-Ami, diplomatico tra i maggiori critici di Netanyahu, tra l’altro: e online, per la colpa di aver solo parlato con un ebreo, gli hanno giurato morte. Non è ancora rientrato a Ramallah.

 

 

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