Il Presidente è stato giustamente criticato per la gestione del ritiro afgano in agosto, ma va detto che in quel caso si è registrato anche un forte tasso di ipocrisia europea: la coalizione impegnata nel Paese asiatico da vent’anni non poteva certo essere sorpresa dall’intenzione americana di chiudere la missione, né gli alleati europei hanno proposto alcuna vera strategia o soluzione alternativa.
In senso più ampio, le grandi aspettative del dopo-Trump in Europa sono state rapidamente sostituite da una notevole delusione per l’atteggiamento “unilaterale” di Washington. L’episodio di AUKUS – l’accordo a tre con Australia e Gran Bretagna per le forniture di tecnologie nucleari a Canberra, annunciato a settembre – ha certamente confermato i timori di una scarsa considerazione per le sensibilità degli alleati nel Vecchio Continente, ma anche qui le critiche a Biden sono solo parzialmente ragionevoli: il preesistente accordo commerciale tra Francia e Australia era già in difficoltà, e comunque aveva un carattere totalmente bilaterale senza coinvolgere affatto la UE. E’ illogico dunque trarne una conclusione complessiva sullo stato dei rapporti transatlantici, tanto più che Bruxelles non ha neppure una posizione del tutto coerente sulle maggiori questioni di sicurezza dell’Asia-Pacifico.
Leggi anche: La strategia indopacifica degli USA e le scelte necessarie per gli europei
Piuttosto, l’episodio di AUKUS e il quasi simultaneo rilancio del formato “Quad” con India, Giappone e Australia, sono manifestazioni di un attivismo diplomatico che mal si concilia con le tesi più radicali sul crollo della credibilità americana (circolate soprattutto dopo l’evacuazione di Kabul) e sulla quasi totale predominanza delle preoccupazioni interne per Biden.
Non regge, in ogni caso, una critica “duplice” di “fine impero” ed eccesso di zelo con scarsa considerazione degli alleati – perché è difficile che siano vere entrambe le cose. Se l’America di Biden è in declino terminale, non si vede come e perché starebbe rilanciando il suo ruolo come superpotenza dell’Indopacifico, cioè della regione in cui si potrebbero decidere le sorti del mondo nei prossimi decenni. Parallelamente, se stesse finendo l’epoca degli USA come vera superpotenza, non si vede come e perché gli europei dovrebbero tanto preoccuparsi per la perdita del legame stretto e privilegiato con Washington. La politica estera di Biden non è certo impeccabile, ma ha una sua logica e sono soprattutto gli europei a dover prendere decisioni impegnative in tempi rapidi.
In realtà si sta anzi aprendo una “finestra” potenzialmente molto importante per ridefinire e chiarire i rapporti transatlantici: anzitutto in vista del nuovo “Concetto Strategico” della NATO previsto per il 2022 (che coincide in pratica, cronologicamente, con il cosiddetto “Strategic Compass” della UE); poi per la ripresa dei negoziati commerciali (nel formato ora denominato “U.S.-EU Trade and Technology Council”, o TTC) inaugurati a fine settembre a Pittsburgh.
Va ricordato che la NATO rappresenta ancora oggi oltre il 50% delle spese militari globali, e che, pure a fronte della crescita cinese, USA e UE assommano tuttora un quarto del commercio mondiale e quasi la metà del PIL mondiale. E i dati economico-militari poggiano naturalmente su istituzioni democratico-liberali (rule of law, rispetto dei diritti umani) e sul principio della “fair competition” nei mercati. In sostanza, gli elementi fondanti dell’alleanza euro-americana sono ancora piuttosto solidi, nonostante crisi ricorrenti, sfide globali e movimenti di autocritica – essendo questi ultimi un tratto tipico delle società liberali, sconosciuto ai sistemi autoritari.
Rimarcare questi fattori politici e ideali non è semplice retorica, ma al contrario una presa d’atto della proiezione internazionale degli Stati Uniti, come dei loro alleati e di alcuni dei loro partner: i canali negoziali euro-americani sui vari fronti sono il luogo in cui verranno definiti alcuni standard e linee-guida con un potenziale impatto realmente globale. E proprio queste scelte di fondo distinguono la politica estera dell’amministrazione Biden rispetto alla precedente, che aveva apertamente respinto il concetto stesso di una convergenza di interessi e valori con un gruppo selezionato di Paesi – a favore del famigerato approccio “transattivo” per cui si negozia con chiunque allo stesso modo.
E’ chiaro che anche il Presidente Biden interpreta la proiezione globale degli Stati Uniti in base alla sua lettura degli interessi nazionali, ma lo fa senza attaccare o minare l’intero impianto degli impegni multilaterali assunti negli anni passati da Washington. Invece di oscillare tra un incontro con Kim Jong Un e un insulto agli ayatollah iraniani, tra un complimento a Vladimir Putin e una critica alla perfida politica economica tedesca, l’attuale Presidente si presenta come un fattore di sostanziale stabilità, pur adattando gradualmente la posizione americana ai cambiamenti geopolitici in atto.
Evitando deliberatamente di alimentare l’eco mediatica, l’amministrazione Biden cerca di smussare i motivi di frizione con gli alleati e di costruire o ri-costruire relazioni proficue. Nel contesto delle ben note sfide globali che palesemente richiedono una collaborazione molto vasta – dalla COP26 al COVID19 – può essere utile che gli USA guardino al mondo come un quadro in sfumature di grigio piuttosto che in bianco e nero. Lo si vede anche in chiave di complicate situazioni regionali come in Medio Oriente, quadrante in cui Washington non sta più giocando su un unico tavolo con Israele e Arabia Saudita per schiacciare l’Iran (che peraltro non risulta essere scomparso dalla mappa dopo i quattro anni di “maximum pressure” trumpiana), ma conserva una maggiore autonomia di azione e dunque maggiore flessibilità.
Lo si vede, in modo diverso, nei confronti della Cina, che pur essendo senza dubbio un “avversario sistemico” richiede strategie sofisticate oltre allo schieramento dei gruppi portaerei per difendere Taiwan; o meglio, proprio perché si tratta di gestire un rivale pericoloso, la “questione cinese” riguarda anche il confronto tra regimi politici, e dunque coinvolge la UE, il G7, l’OCSE, magari il G20, gli standard per le tecnologie del 5G, le vie della seta alternative, l’Africa, la transizione energetica. Non basta allora imporre sanzioni commerciali e difendere le isole giapponesi o le rotte marittime del Sud-Est asiatico per contenere Pechino, e l’azione di Washington si deve inserire in una cornice multilaterale. Ciò non esclude neppure la possibilità di rapporti selettivamente cooperativi con la Cina o altri Paesi “problematici”. Così, a fine settembre, il Segretario al Commercio degli Stati Uniti, Gina Raimondo, ha definito l’asse USA-Cina come una “relazione complicata” nella quale comunque va tenuto conto di un fatto incontrovertibile: la Cina è “un’economia troppo grande” perché le aziende americane ignorino il suo potenziale come mercato. Wall Street le sta dando decisamente ragione, a giudicare dal flusso di investimenti verso il gigante asiatico.
Leggi anche: La barra raddrizzata della politica estera americana
Con buona pace dei sostenitori un po’ troppo entusiastici del “decoupling” e di un massiccio “near-shoring” delle catene del valore, la crescita economica e il benessere – anche del tipo “sostenibile e verde” – sono tuttora legati quasi per tutti ai rapporti globali; e infatti si vedono per ora scarsi segnali di un forte decoupling tra USA e Cina, come tra UE e Cina.
In ultima analisi, l’America di Biden soffre di seri problemi interni e delude per adesso alcune aspettative di noi europei, ma certamente non è un Paese terrorizzato dal resto del mondo, vedendo nemici ovunque – negli anni di Trump, perfino lungo il confine messicano e quello canadese. E’ in grado di costruire nuove reti di rapporti cooperativi e non sembra affatto avere intenzione di ritirarsi dalle sue responsabilità internazionali.