C’è un primo livello al quale analizzare il dibattito in corso negli Stati Uniti, che coinvolge sia le istituzioni sia l’opinione pubblica americane, per di più in piena campagna elettorale: riguarda il quesito se e in che misura il Presidente abbia abusato della sua posizione per perseguire interessi personali e di parte. Ma c’è anche un secondo livello, che tocca direttamente il ruolo degli Stati Uniti nel mondo: il problema è quale conduzione della politica estera ci si debba attendere quando si interagisce con la Casa Bianca. E la risposta ad oggi è davvero inquietante soprattutto per i più naturali alleati di Washington, poiché il caso ucraino – e prima ancora quello russo, meno chiaro ma comunque preoccupante almeno su base indiziaria – mostrano il famoso (o famigerato) approccio “transactional” nella sua veste peggiore e più scivolosa.
Anche in un’ottica di assoluta Realpolitik, l’esercizio di influenza verso altri governi è un’operazione delicata, in particolare quando ad agire è il capo dell’esecutivo in prima persona. E in apparenza è proprio una Realpolitik molto spinta a ispirare l’amministrazione: la National Security Strategy del 2017, che vuole chiaramente riflettere la svolta impressa da Donald Trump, rimarca senza alcun pudore il dato oggettivo del potere sul piano internazionale:
It is a strategy of principled realism that is guided by outcomes, not ideology. It is based upon the view that peace, security, and prosperity depend on strong, sovereign nations that respect their citizens at home and cooperate to advance peace abroad.
La tensione interna a questa logica (che poggia sull’espressione “principled realism”) è abbastanza evidente già dalle poche parole appena citate: “forti nazioni sovrane” non saranno certo disposte a tollerare eventuali interferenze americane, o di chiunque altro, nella propria sfera interna; ma allora che senso ha il richiamo al rispetto dei cittadini – cioè, presumibilmente, dei diritti fondamentali? Di fatto, l’insistenza sulla prima parte della descrizione (che è una relativa novità di questa NSS rispetto alle precedenti edizioni, ribadita in più passaggi) svuota la seconda parte.
La realtà è infatti assai più articolata e variegata rispetto alla visione astratta dei confini come tutela quasi automatica della pace e della stabilità. E nella pratica l’amministrazione Trump ha agito in modo piuttosto libero da vincoli: ad esempio, il regime iraniano è stato criticato apertamente per il suo carattere autoritario e teocratico; i pozzi petroliferi in Siria (ancora, teoricamente, un Paese sovrano) sono stati indicati come oggetto di controllo militare e di negoziato; e in ultimo il governo di Pechino potrebbe essere punito per la gestione delle proteste di Hong Kong. Come si colloca in tutti questi casi il concetto della sovranità statuale come unico faro delle relazioni internazionali?
Dunque, oltre ad aggirare uno dei canoni che la stessa amministrazione ha scelto come pilastro della sua politica estera, quello della sovranità nazionale quasi senza condizioni (per cui anche gli USA dovrebbero rispettare in pieno quella altrui e non certo interferire pesantemente), il caso ucraino ha creato di fatto una strada a doppio senso di marcia: da Washington verso capitali estere, ma fatalmente anche dall’estero verso il centro del potere americano. Inevitabile allora che il presidente sia sospettato, dagli avversari politici che sistematicamente cerca di umiliare in modo pubblico, di essere vulnerabile nei confronti di attori esterni. Una politica “transattiva” portata alle sue estreme conseguenze produce, per forza di cose, favori e promesse, crediti e debiti. E i debiti possono gravare sul Presidente come un macigno.
Oltre a queste considerazioni, rimane poi l’interrogativo più generale sulla credibilità e affidabilità degli impegni americani a fronte di continui cambiamenti di rotta e negoziati fortemente personalizzati. Si può ipotizzare – anzi sperare – che la fiducia sia un bene dal valore “elastico”, come direbbero gli economisti, cioè in grado di riprendere quota in tempi rapidi se cambiano le condizioni politiche. Ma non si dovrebbe dare per scontata questa elasticità, visto che alcuni passaggi-chiave restano impressi nella memoria come “lessons learned”: si pensi ai curdi siriani, ma agli stessi europei che hanno investito non poco nell’accordo nucleare con l’Iran, o perfino a coloro in Israele e Arabia Saudita che si aspettavano il pugno di ferro militare da parte di Trump proprio contro le provocazioni iraniane – cosa di cui non si è vista traccia.
Insomma, su tutte le sponde internazionali ci sono ormai i segni delle incertezze, dei voltafaccia e delle reticenze manifestate da un’amministrazione che continua a presentare una fondamentale imprevedibilità come deliberata scelta strategica. E la tentazione è forte per l’unica altra grande potenza (la Cina) e per varie medie potenze (Russia, ma anche Turchia, Arabia Saudita, magari India o Giappone) di sfidare la superpotenza che non vede l’ora di districarsi dagli impegni pregressi in quasi tutti gli scenari regionali.
Su tale sfondo globale, in cui la resilienza americana sarà testata più spesso che in passato, andranno valutati gli effetti del probabile “mezzo impeachment” che il Presidente subirà per mano dei Democratici – visto che il Senato bloccherà probabilmente la procedura all’ultimo passaggio. Lo scontro in atto ha in effetti una valenza costituzionale, ruotando attorno alle prerogative della presidenza in politica estera e al margine di manovra concesso al Comandante in Capo. Oltre al giudizio terribilmente negativo sull’operato di Donald Trump, circa metà del Paese (e dei rappresentanti popolari) ritiene che egli stia abusando del suo potere. L’efficacia degli USA su scala globale esce comunque indebolita da questo conflitto interno, che è al contempo scontro tra poteri dello Stato; anche nella migliore delle ipotesi, una Casa Bianca “imperiale” eppure quasi assediata implica che il resto dell’apparato governativo sia distratto e timoroso.
Almeno fino a novembre prossimo, non si vede una via d’uscita dal vicolo buio in cui si trova la grande democrazia che tutti osservano con curiosità quasi morbosa. Continueremo a osservarla, perfino affascinati dallo spettacolo nei suoi contorni più cupi, ma l‘esito lascerà comunque molte tossine nel corpo sociale americano.
Intanto, l’approccio “transactional” privo di remore non consente, di fatto, di coltivare partnership che durino oltre lo scambio del momento. In pratica, l’America in questa fase non è in grado di esercitare un ruolo di leadership, ma soltanto di far pesare la sua potenza allo stato puro – sperando che basti e non sia controproducente. Nella bufera politica dell’impeachment, qualunque sarà il risultato finale della procedura al Senato, sono realmente in discussione i parametri della politica estera adottati dal Paese più influente al mondo. Un Paese che sta mettendo in gioco proprio questo suo ruolo.